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 2010  novembre 01 Lunedì calendario

COM´È VANESIO GUGLIELMO TELL - «Là

là, non hanno alcun sospetto»... «Là, là, mi par che faccia effetto»... «Là, là, fra poco sono a letto»... Chi per avventura si sia trovato alla Scala nel 1950 alla prima rappresentazione italiana della Lodoiska di Cherubini - fra una Tetralogia wagneriana diretta da Furtwängler e un Mosè rossiniano con Tancredi Pasero - ricorda ancora quella Scena della Narcotizzazione: con due tavolini di bevitori agli estremi del palcoscenico: con sostituzione di filtri sonniferi e spiate reciproche. In italiano, allora, sull´onda degli entusiasmi cherubiniani dell´influente critico Giulio Confalonieri. E non già con i «Bon, bon!» delle versioni originali successive.
Così, tra le memorie tradizionali, si rammentano «Selva opaca» e «Resta immobile» eseguite da Mirella Freni e Giangiacomo Guelfi nelle migliori edizioni italiane del Guglielmo Tell. Con interpreti quali Dietrich Fischer-Dieskau o Cheryl Studer, anche. Ricordi generazionali ovvi, per chi ha raggiunto una certa età. E ritornano alla doppia inaugurazione di Santa Cecilia, coi capolavori appunto del Fiorentino e del Pesarese secondo i testi originari francesi.
Qui, una prima riflessione potrebbe riguardare gli effetti della subordinazione del «genio musicale italico» alle convenzioni e usanze parigine, ampollosissime e pomposissime e magari noiose, fra Grand Opéra e Opéra Comique. Si rimane talora tediati dal sistematico eccesso di brindisi e bevute fra «Mes amis» patriottici o di libagione. E poi, la solfa di quei balletti ornamentali, e per lo più melensi, prima di Diaghilev. E quel «courroux» ostentato da tutti i Cattivissimi - coi quali immediatamente si solidarizza. Senza mai un «vaffa» che li esorcizzi, né un Debussy che instauri un minimo di impressionismo o simbolismo o boudoir.
Soprattutto, per chi non sia già immunizzato e assuefatto, quanto ossessivamente e noiosamente abbondano le «e» finali non mute ma calcatissime: puissanc/e, impuissanc/e, silenc/e, indolenc/e, insolenc/e, impatienc/e, obéissanc/e, vengeanc/e... Uffa, che palle: pèr/e, mèr/e, amèr/e, sincèr/e, tutélair/e, solitair/e, héréditair/e... «Qui si abusa dell´accessorio», direbbe Stendhal, «ne pouvant atteindre au principal». Stesso effetto, per ore e ore, delle nostre canzoni con amore e dolore e cuore; e tante rime in are, ere, ire, coi relativi participii passati.
Lo spettatore non specializzato si chiede qui magari come mai - in collettività dove le invocazioni a Dio e al Cielo diventano un tormentone - mai appaia un qualunque sacerdote. E anzi, le nozze delle coppie vengono benedette (?) da un buon vegliardo che però è anche padre di famiglia e inoltre muore subito. Siamo negli anni di Dante Alighieri, intorno al 1300, Lutero verrà dopo oltre un paio di secoli, e da almeno due secoli prospera l´importante abbazia benedettina di Einsiedeln proprio nel cantone tuttora cattolico di Schwyz protagonista con Uri e Unterwalden di questo Guillaume Tell. Dunque, fra tutti quegli assillanti «Dieu!» e «Ciel!», il fruitore-utente viene costretto a chiedersi se quell´assenza sistematica di preti o frati si dovesse a norme temporanee inderogabili dell´Opéra parigina ai tempi di Carlo X e dei «Gigli d´Or». Ma allora, coi cardinali e coi monaci e gli eremiti e confessori e inquisitori, come avranno mai fatto?
A Roma, con Antonio Pappano e Ciro Visco, l´orchestra e il coro sono addirittura magnifici. Ma il mirabile protagonista Gerald Finley - già ambiguo e magico Nick Shadow nell´indimenticabile Rake´s Progress di David Hockney a Glyndebourne - qui tratteggia un Guglielmo Tell intrigante e inquietante. Altro (infatti) che il cattivissimo Durlinski nella Lodoiska, così moderno perché mai tutto d´un pezzo fra sembianze pessime e tenerezze passionali e crudeltà proclamate e servi bricconi e tenori importanti. Questo Guglielmo, tutto moglie e figlio e famiglia, invade la privacy dell´amico Arnold con intollerabili (oggi) indiscrezioni e curiosità sull´intimo, per farselo sodale e complice nella cantonalità elvetica. (Ma ancora Stendhal: «Rossini, comme Walter Scott, ne sait pas faire parler l´amour»).
Anche vanesio, oltre tutto: già proclama «Io son Guglielmo Tell!» quando non è ancora nessuno. Altro che «Io son Lindoro...».
Sarà forse intrigante (?) rimarcare che i tanti fuochi cantonali sulle montagne e negli atti del Guillaume Tell hanno avuto un loro analogo seguito con Giosuè Carducci, mezzo secolo dopo ma riferendosi al 1175, un secolo prima. Su i campi di Marengo. «D´alti fuochi Alessandria giù giù da l´Apennino - Illumina la fuga del Cesar ghibellino. - I fuochi de la lega rispondon da Tortona, - E un canto di vittoria ne la pia notte suona».