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 2010  novembre 01 Lunedì calendario

IMPUTATO KHODORKOVSKI UN COLPEVOLE «PER FORZA»

Con le ultime requisitorie del procuratore e le ultime arringhe della difesa , il processo del «criminale » Mikhail Khodorkovski e del suo «complice» Platon Lebedev giunge al termine. La sentenza cadrà fra un mese, o due, o tre... il tempo necessario per le autorità del Cremlino di accordarsi e decidere. I russi non si lasciano ingannare: sanno (il 40 contro il 19 per cento) che il verdetto è fabbricato nei «corridoi del potere». L’ex proprietario del colosso petrolifero Yukos, accusato surrealisticamente di aver «rubato» fra il 1998 e il 2003, di nascosto e in barba a tutti, il 20 per cento della produzione totale russa (il che equivale, misurato in petroliere, a due volte il giro dell’equatore) è colpevole. È per forza colpevole. Il procuratore, di pasta buona, in extremis ha corretto le cifre al ribasso. Così, senza tante spiegazioni, è passato da 349 milioni e rotti a 218 milioni di tonnellate di petrolio sottratte. Vuole forse che la sua arringa appaia più plausibile?
Nel frattempo, Kassianov, Kristenko, Gref (rispettivamente primo ministro, vice primo ministro e ministro dello Sviluppo all’epoca dei fatti), tutti e tre citati in tribunale, hanno dichiarato che un furto di così vasta portata è pura invenzione e che in nessun caso sarebbe potuto sfuggire alla loro vigilanza. Povero procuratore! Si destreggia nella moltiplicazione di barili immaginari, miracolosi quanto la moltiplicazione dei pani secondo i santi Vangeli. «Ringrazio il procuratore che dimostra la mia innocenza — ironizza l’imputato — qualsiasi persona normale non può credere a tante assurdità». E ognuno si chiede perché, una volta smantellata la società e allegramente distribuita agli amici del Cremlino, l’ex oligarca spennato, saccheggiato, punito già ingiustamente con sette anni di galera in Siberia, non venga liberato. Magari mandato in esilio. Una simile conclusione avrebbe il dono di rassicurare gli investitori stranieri, recalcitranti all’idea di rischiare uomini e capitali in una regione straziata dalla corruzione generale e dal cupido arbitrio di autorità cleptocratiche. Solo che la colpevolezza molto reale di Mikhail Khodorkovski pesa davvero molto: egli ha ragione contro Vladimir Putin.
Annoverata fra le economie emergenti (i Brics: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), la Russia fa una magra figura. Negli ultimi tre anni gli investimenti stranieri sono stati cinque volte inferiori a quanti ne raccoglie il Brasile. Inoltre, sulla tabella 2010 di Transparency international, la Russia regredisce al 154˚posto tra i «Paesi meno corrotti», accanto al Tagikistan e alla Papuasia, appena prima della Somalia, molto dopo lo Zimbabwe, fra lo Yemen e la Repubblica democratica del Congo. Provate ad affidarle i vostri soldi! Con tante tenebrose concussioni e misteriosi omicidi, l’atmosfera degli «affari» continua ad apparire pesante: una corruzione così estrema nasconde «un pericolo peggiore del nucleare», insiste Khodorkovski, forte del fatto di aver lanciato, dieci anni fa, il progetto di una Russia che assocerebbe modernizzazione e democratizzazione, liberandosi delle sue mafie politico-economiche. Egli paga il suo sdegno troppo flagrante verso gli usi locali del modo di governare e fare affari. «Per avere la certezza che nessuno manifesterà più quel genere di demenza che è il desiderio di agire liberamente e di partecipare alla vita politica, abbiamo, davanti a tutti, il folle esempio di un Khodorkovski che gela a 40 gradi sotto zero, dorme su un’asse di legno, mentre all’osservatore non resterebbe che interrogare l’infernale realtà di una Russia comunista o capitalista così somigliante agli incubi di Dostoevskij» (Mario Vargas Llosa, Nobel 2010).
Non molto tempo fa la volontà di Mikhail Khodorkovski poteva apparire, agli occhi della Mosca bene, prematura e temeraria, se non utopica. Oggi, il vento è cambiato e, con l’aiuto dell’esperienza, si scopre lentamente che il rischio è Putin con il suo desolante bilancio. Innanzitutto, il fiasco economico: l’enorme rendita ricavata da petrolio e gas prima della crisi ha arricchito soltanto i potenti cortigiani del momento, senza che l’industria e l’agricoltura approfittassero di questa manna per modernizzarsi. Ed ecco che la crisi mondiale colpisce in pieno una società in declino, diversamente dalla Cina che, priva di energie fossili, è tuttavia in piena espansione. Il paragone è talmente lampante che Medvedev deplora in pubblico di essere a capo di un gigantesco e paralitico «emirato petrolifero». Di chi è la colpa? In secondo luogo, il fiasco strategico: la guerra feroce rilanciata nel 2000 da Putin nel Caucaso del Nord non è spenta; malgrado 200 mila morti e una dittatura agli ordini del Cremlino e spietata — rappresaglie, torture, corruzione, islamizzazione, velo imposto alle donne e omicidi mirati — l’instabilità ha raggiunto le Repubbliche vicine. Infine, gli insuccessi diplomatici imprevisti: se i carri armati della Grande Russia hanno sfondato le difese della piccola Georgia, l’annessione che ne è seguita del 20 per cento del territorio (Abkhazia e Ossezia del Sud) non è legittimata dall’insieme del Pianeta e nemmeno dai vicini vassalli su cui il Cremlino credeva di poter contare. Mikhail Saakashvili, la sua bestia nera, non è morto, né è stato deposto. Con il succedersi delle umiliazioni, l’assai poco democratica Bielorussia propende ormai per l’Occidente. Agli zar del petrolio resta il potere di nuocere e l’incessante ricatto di tagliare l’energia.
Sorvoliamo sul catastrofico declino demografico, l’alcolismo dominante, le devastazioni della tubercolosi e dell’Aids, la disoccupazione e la prostituzione, la droga e lo sconforto generale appena ci si allontana dalle capitali. Gli incendi dell’estate 2010, per molto tempo non domati, illustrano il caos di un Paese dove l’incompetenza delle alte cariche va di pari passo con la trascuratezza del popolo. Malgrado quanto ripetono instancabilmente gli ingenui e strombettano i corrotti, Putin non ha ristabilito affatto il prestigio della Russia; in realtà, ha restaurato il ristagno e il «nichilismo giuridico» (il termine è di Medvedev) dei decenni di Breznev. Quanto al suo allievo di sempre, attuale presidente della Federazione, ex capo di Gazprom, che l’ha spalleggiato nelle sue malversazioni e le sue spoliazioni , è un secondo c he non dispone del potere e si limita a distillare auspici penosi, appena abbelliti di qualche critica sorridente per abbindolare il pubblico. Good
cop, bad cop, sbirro buono o sbirro cattivo, sbirri restano e non ci sono trucchi per dissimularlo. Cacciando dal Comune di Mosca l’affarista Liujikov (una misura apparente di sanità pubblica) a vantaggio di un putiniano autentico, Medvedev dimostra come tutto cambi affinché nulla si muova. La Russia ristagna nei bassifondi della corruzione, ma resta il Paese la cui cultura, malgrado lo zarismo, illuminò l’Europa intera fino al 1914. L’«altra» Russia, quella di Dostoevskij e di Cechov, quella di Sakharov e di Solženicyn, quella di Anna e di Natasha, non è morta; la resistenza indomita di Khodorkovski ne è una prova. Sarebbe potuto fuggire, ha scelto di rimanere e di affrontare quel che chiama «la verticale corrotta». Colpevole, quindi. Per forza colpevole, poiché, come dice un politologo moscovita, «in libertà, Khodorkovski, agli occhi del popolo, incarnerebbe un misto di Montecristo e di Nelson Mandela». È più o meno quello che mi spiegava, poco tempo prima d’essere uccisa, Anna Politkovskaja.
André Glucksmann