Francesco Cevasco, Corriere della Sera 01/11/2010, 1 novembre 2010
IL ROMANZO DEL CRITICO CHE SFIDA LA CRITICA
Ora giochiamo al gioco che l’autore di questo libro pratica da anni. Con successo, lo pratica, è il numero uno: perché è l’unico a farlo. Certo, il gioco è molto azzardato, e quindi molto rischioso. Se vinci, bene, sei bravo; ma se perdi paghi una posta tre, sei, nove volte più pesante della mancata vincita. Cioè diventi preda di tutti quelli che aspettano, impazienti, la tua prima mossa falsa per impallinarti. Il gioco, potremmo chiamarlo «Provocazione Convinta», sta nello sbilanciarsi totalmente. Non lasciarsi porte aperte alle spalle, vie di fuga, possibilità di ritrattare, di giocare i tempi supplementari. Questa specie di roulette russa l’autore di questo libro se la spara in quel labirinto di lobby, intrighi, amicizie, disamicizie, cordate, trappole, ruffianate, giudizi inauditi e pregiudizi incalliti che si chiama «Critica Letteraria».
Antonio D’Orrico, 56 anni, molto calabrese di nascita, toscano di studi e milanese di lavoro, è un critico letterario e un giornalista (a volte, raramente, essere anche un vero giornalista è un vantaggio). S’è fatto alcuni amici e tanti nemici perché quella via di fuga alle sue spalle la chiude sempre. Lui dice e scrive: «Il Tal Libro è bellissimo, è un capolavoro». Oppure (molto più raramente perché, in genere, scrive soltanto dei libri che gli piacciono): «Il Tal Libro fa schifo». E, sempre in genere, questo lo fa prima che il Tal Libro sia passato al setaccio dei Critici Ufficiali iscritti al Pubblico Registro dei Critici Riconosciuti e Accettati. Viene in mente quando quel comico-attore-cantante, Giorgio Faletti, scrisse il suo primo thriller, Io uccido. Non era ancora in libreria che D’Orrico azzardò, più o meno: è un capolavoro, sbancherà il box office, conquisterà la vetta delle classifiche dei libri più venduti. Che risate si fecero alcuni Critici Ufficiali. Che risate si fece lui quando quattro milioni di copie vendute dimostrarono che aveva ragione.
Allora, per stare al suo gioco: «Il primo romanzo di D’Orrico è bellissimo». Si capisce da una cosa molto semplice: cominci a leggerlo per dovere professionale e ti ritrovi ad andare avanti per piacere personale. Per non sbilanciarci troppo, usiamo una citazione. D’Orrico, intervistato da Andrea Marcenaro sul «Foglio» ha detto: «C’è un cretino, ma scrivi proprio cretino mi raccomando, che ha dichiarato: uno scrittore non può scrivere un capolavoro al primo libro». Ora di D’Orrico questo non è proprio il primo libro, ma il primo romanzo sì. Ha già scritto o curato Cambiare vita (un’inchiesta) e Momenti di gloria (un’antologia). Due titoli che — chiediamo scusa — forse, non sono l’esatto identikit della sua vita. Forse, questo terzo titolo potrebbe corrispondere: Come vendere un milione di copie e vivere felici (Mondadori, in libreria da domani).
Racconta le storie incrociate di giornalisti cialtroni, scrittori narcisi, mafiosi megalomani, papi amanti di cose terrene, premi Nobel e Premi Oscar. E poi vicende di sesso, passioni, cuori caldi e morti fredde. Per fortuna, politica (quasi) niente (appena un accenno a una questione attualissima, ma siccome il libro è stato scritto prima dei fatti realmente in accadimento sembra un tocco di preveggenza).
D’Orrico ha anche l’onestà dell’hommage: dichiara di aver tirato dentro le sue pagine autori («Proprio un furto da Banda Bassotti») come Pirandello, d’Annunzio, Tozzi, Pasolini, Belli, Flaiano, Kafka, Nabokov. Da questo magnifico frullatore escono personaggi e interpreti tipo:
1) Kashmir Paolazzi, vero nome Casimiro (Cazzimirro in certi contesti, diciamo, ludici). Giornalista molto spregiudicato che per uno scoop, un’esclusiva di cui parlerà tutta Italia (magari tutto il mondo) è disposto a passare sul cadavere della mamma, del babbo, della moglie quasi stuprata da un tipaccio «ma c’è prima il mio lavoro». Disposto a nobilitare delinquenti efferati pur di piazzare un articolo in prima pagina sul «quotidiano più autorevole e diffuso del Paese». Disposto, pur di «bucare lo schermo» della più importante rete televisiva nazionale, ad assecondare il gioco di un boss mafioso che vuole «modernizzare» Cosa Nostra in Rosa Nostra.
2) Vittorio Campari, ottimo allievo della scuola superiore di scrittura «C. Pavese» dedicata a forgiare autori da un milione di copie che transiterà dall’amore per la letteratura a quello (altrettanto intenso) per una pornostar, a quello per Papa Christian I (amore non necessariamente religioso, ma finalizzato a «piazzare» un suo serial in tv).
3) Il professor e scrittor Federico Alberto Maria Sicoli che sa insegnare come costruire un libro da un milione di copie, ma non è capace di arrivare in fondo a un libro scritto da lui. Che spiega come indossare gli occhialini neri della Banda Bassotti e rubare, senza farsene accorgere, l’arte dei grandi scrittori. E a essere trasgressivi di pagina in pagina usando, al momento giusto, parolacce e sconcezze che emozionano sempre il lettore. (Anche questa lezione D’Orrico l’ha imparata bene).
4) Le attrici belle e sexy che li fanno innamorare tutti assieme e poi succedono le disgrazie.
5) Le «tenutarie» dei salotti borghesi che regalano illusioni agli intellettuali di belle speranze facendoli transitare sulle loro terrazze o rinchiudendoli nelle loro stanzette.
Ma dov’è finita la storia di questo romanzo? La trama, il «plot», come direbbe il boss mafioso che vuole «modernizzare» Cosa Nostra anche attraverso i corsi d’inglese alla Berlitz per trasformare i «picciotti» in «goodfellas». Quella — il consiglio è — trovatela direttamente nel libro: non fidatevi dei critici veri, presunti o improvvisati.
Francesco Cevasco