Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 31/10/2010, 31 ottobre 2010
NUOVA MULTISALA MANCUSO
Categorie dello spirito per sopravvivere a un Festival. “Sedersi nei pressi dell’uscita laterale, avere un orologio funzionante, porsi un limite fisiologico al numero di sbadigli”. In bilico su una scomoda poltrona di plastica, in un sonnolento sabato romano, Mariarosa Mancuso, firma cinematografica del Foglio, fuma a ritmi fordisti. Laurea in Filosofia con tesi sulla Logica, camera con vista su Milano, cappotto rosso, risata aperta e occhi azzurri che prima ancora di osservare, stroncano. Gli addetti stampa non la amano. “Ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere, ma la confusione di ruoli e la pretesa di un giudizio costantemente benevolo è uno dei problemi del cinema italiano”. Nella sua rubrica settimanale, incorniciata dai graffi di Vincino, si salvano in pochi.
Lei è un’anomalia.
Alcuni miei colleghi sono refrattari alla durezza. Esiste un’infernale mescolanza tra case di produzione che passano le notizie ai giornali e critici compiacenti. Se ci si incontra in terrazza, giudicare è più complicato.
Come invertire il flusso?
Ci vorrebbe la separazione delle carriere. Chi fa il critico non dovrebbe fare il colorista. La benevolenza della stampa, poi, riguarda quasi sempre i film italiani. Nasce un capolavoro al giorno.
E il pubblico pagante?
Sta diventando minoritario, anche se poi, evitare che si arrabbi leggendo le recensioni è illusorio. Si diventa meno credibili perché semplicemente lo si è di meno.
Il vincitore dell’ultimo Cannes non l’ha entusiasmata.
Il Festival è quel luogo dove si fa a pugni per assistere a ciò che se fosse proiettato sotto casa lascerebbe indifferente chiunque.
Apichatpong, lo zio Boonmee, la Palma d’Oro, dicevamo.
Caso esemplare. Da qualunque parte lo si prenda l’opera thailandese, dialisi comprese, è incomprensibile. Mi ha trasmesso uno stato di profonda, catatonica, indomabile noia.
A Cannes c’era anche Loach.
Il suo Irish Route partiva bene, poi dopo mezz’ora, puntuale, come spesso nei film di Loach plana la retorica. È un tributo che certi registi di sinistra non pagano serenamente, una servitù volontaria . Senza sorpresa o mistero.
Altro premiato, Amalric
Certi autori si rivelano senza necessità di interrogarli. Non aveva una storia, le produttrici insistevano e in Tourneè si è diretto verso la descrizione del Burlesque.
Che c’è di male?
Nulla, solo che il burlesque non arriva mai. Amalric preferisce concentrarsi su un regista in crisi esistenziale. Originale no?
Lei è ideologica?
Balle, mi piace la bellezza. Il film di Virzì sui call center (Tutta la vita davanti, ndr) era brutto e l’ho scritto, La prima cosa bella valido e non l’ho taciuto.
Pace fatta?
Mi ha dato della killer.
Proprio così?
Era da Daria Bignardi, in tv: ‘La pagano e lei spara’, disse. Nella remota ipotesi che la raffinata metafora fosse rimasta oscura.
Cova preconcetti?
Adoro e difendo i pregiudizi. A costruirli non basta una vita. Però ho apprezzato il film di Celestini.
E rimproverato Bondi per le intemerate su Draquila. Citiamo: “Cercasi con urgenza un consulente alla comunicazione che insegni a dire: ‘Non ho visto il film per intero, lo farò quanto prima, molti auguri per Cannes’.
Confermo. La pubblicità gratuita a Sabina Guzzanti e il caos mediatico è un esclusivo merito di Sandro Bondi.
Capitolo ‘venerati maestri’: Martin Scorsese.
Shutter Island era troppo lungo. Voleva rifare un genere già esplorato da Hitchcock in Io ti salvero, il modello anni ‘50 in cui i matti non sono tali e il folle è lo psichiatra. Troppe inutili visioni oniriche. Il sogno al cinema è complicato.
E Inception?
Ero diffidente ma mi è parso magnifico. Un sogno fuori da ogni schema o precedente.
Riprendiamo il Periplo. Kiarostami.
Il suo Copia conforme è un inno a Morfeo. Si sbadiglia fino a slogarsi la mascella. Kiarostami soffre della sindrome Wenders. Certi spottoni toscani o siciliani imbarazzano.
Un tempo giravano capolavori.
L’anagrafe è spietata. L’ultima impresa accettabile di Wenders è Paris Texas. Tempo fa ho rivisto Alice nella Città. Insopportabile. Lui gira il mondo e dova trova un finanziamento, come a Palermo, si ferma. Riciclare gli angeli di Berlino per la pubblicità però è stato eccessivo. Sfortunatamente, non lo rileva nessuno.
E Manoel De Oliveira?
Il portoghese, a 101 anni , gira un film ogni 12 mesi. Però giovani, lui e la sua poetica non sono mai stati davvero.
E Godard?
Da Fino all’ultimo respiro non ricordo un solo lavoro convincente. All’insipienza artistica, il vate aggiunge dichiarazioni deliranti. Gli danno pure l’Oscar e lui non va a ritirarlo, preferendo rimanere in Svizzera. Accade a forza di trattare da genio e filosofo un artigiano del cinema.
Registi sopravvalutati da noi?
Un’infinità. Se devo fare un nome dico Ozpetek, perché le sue commedie hanno pretese artistiche. Se si limitasse a far sorridere il giudizio sarebbe differente.
Ridere è un’eresia?
La peggiore tra le bestemmie. A meno che in coda non alberghi una morale edificante, il vizio di una buona metà del cinema italiano. Allora meglio Brizzi. In Maschi contro femmine, Paola Cortellesi è bravissima.
Un regista sottovalutato?
(Ci pensa, riflette, non le viene un solo nome, poi, in coda, quando tutto sembra perduto cita Gianni Zanasi).
E gli attori?
Stimo molto, ed è un paradosso, due prodotti della tv come Argentero e Mastandrea. Forse l’Accademia d’arte drammatica non fa molto per questo paese.
Gli altri?
Insomma. Servillo, anche se rischia l’inflazione, soprattutto a teatro è straordinario. Altri figuranti sembrano macchiette.
Nomi, nomi.
Bentivoglio è uguale a se stesso in tutti i film, Margherita Buy è sempre nevrotica e non sapremo mai se è un’attrice o soltanto una caratterista. Non pretendo il trasformismo di Maryl Street, ma mi appello: almeno cambiatele la pettinatura.
Colpa loro?
Condividere la pigrizia dei nostri registi li rende corresponsabili.
Altri buchi?
Il principale deriva dalle sceneggiature. La differenza tra un prodotto medio e un grande film la fa il regista. Lo sceneggiatore fa la differenza tra un film e nessun film.
E quelli italiani?
È un problema di storie e di linguaggio. Le storie vere accadono, i film si scrivono, cercando di far parlare i personaggi in maniera plausibile.
Non accade?
Ma quando mai? L’operaio di Marghera non discute come l’accademico della Crusca. Se il regista lo pensa, deve sforzarsi di cambiare idea.
Ci offra uno spiraglio di luce.
Mi ha divertito Figli delle stelle di Pellegrini. È un film con personaggi, storia e dialoghi. Ho incontrato Guillermo Arriaga, giurato a Venezia, recentemente.
E cosa le ha detto?
Che nessuno dei film italiani in concorso è stato preso in considerazione per un premio. Non ci hanno creduto, non capivano.
Qualcosa da salvare c’era...
In verità sì. Celestini e Mazzacurati. Carlo è tra i pochi autori di casa nostra a non prendersi eccessivamente sul serio, gli fa onore.
Lei tradusse Allan Poe.
E leggendo i libri dello Strega, Matteucci esclusa, mi hanno visitata gli incubi.
Brutti?
In quello di Silvia Avallone, ottima operazione editoriale, ho scorto la sconsolante profezia di Mc Luhan sul lettore incerto.
Ovvero?
Un libro, per essere valutato a fondo si inizia da pagina 69. Di solito, al principio, l’autore mette il meglio di ciò che ha.
Accade con tutti?
Non proprio.
E a pagina 69 di Acciaio cosa c’è?
Una disarmante descrizione tricologica della protagonista.
Non si fa molti amici.
Non c’è problema. Sono serena. Vivo benissimo lo stesso.