Giorgio Dell’Arti, La Stampa 23/10/2010, PAGINA 84, 23 ottobre 2010
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 40 - MEGLIO CONTADINI
Stava dicendo dell’Agraria.
Oltre alle terre incolte, al prestigio di Cesare Alfieri, e al desiderio di far qualcosa che contentasse la bourgeoisie, c’erano altre ragioni che consigliavano la nascita di un’associazione simile. Dico «ragioni» e dovrei dire «ossessioni». Una era il terrore della fabbrica. Alfieri aveva messo in guardia dal pericolo che i poveri si trasformassero in proletari, cioè in soggetti politici. E questo non poteva avvenire che attraverso la fabbrica. A Torino arrivavano notizie preoccupanti dagli insediamenti industriali esteri. Il Ligorio, inorridito di fronte «alla miseria, ai trambusti, alle violenze degli operai di Manchester e di Leeds», giudicava «quel sistema di manifattura una gran diavoleria, né possiam tanto che basti lodare il Signore che ci tenne finora esenti da così deplorabili sciagure». L’annuario del Palmaverde uscì nel ‘42 con tutta un’esaltazione del lavoro nei campi «mentre nelle manifatture l’uomo è una macchina inchiodata ad un sedile». Eccetera. Perciò meglio spingere sullo sviluppo agricolo, per esempio con questa associazione di produttori.
Non c’era nessuno che tentasse una qualche avventura industriale, non so, le macchine…
Cavour, che aveva viaggiato, avrebbe aperto manifatture dappertutto. Faceva l’industriale anche in campagna e infatti De La Rive, raccontando di Leri, parla dello «stridore di macchine sotto le tettoie». Il conte era di destra, ma non reazionario. Il padre, che invece era un reazionario autentico, s’opponeva ogni volta, non voleva il binario di Chambéry, disse di no allo zuccherificio. L’argomento era sempre lo stesso: il Piemonte non era adatto a quel tipo di imprese.
Era vero?
Di industria ce n’era effettivamente poca. Cinquantuno altiforni, e andavano tutti a carbone di legna. Si tirava fuori un po’ di ferro in Val d’Aosta e in Savoia. Si fabbricavano armi a Valdocco. C’era qualche officina a Torino o a Sestri Levante. La chimica valeva 300 mila lire in tutto, una produzione limitata a candele, sapone, coloranti.
Era parsa una gran cosa, negli anni Trenta, introdurre il gas in alcuni caffè e in alcune case di Torino e di Chambéry. L’energia veniva tutta dal carbone (e a metà degli anni Quaranta cominciarono ad aver problemi, perché per aumentare i terreni a cereali avevano tagliato troppa foresta). L’agricoltura restava sempre l’attività principale, anche se i prezzi, dopo Napoleone, non avevano fatto che scendere. Sette piemontesi su dieci stavano in campagna ad arare, zappare, badare alle bestie. Era molto forte l’allevamento dei bachi. La seta (Cuneo, Torino, Lomellina) era la prima voce nelle esportazioni. A Torino i quartieri di Borgo Po, Porta Susa, Porta Nuova erano fittamente abitati dai tessitori. Ma le macchine tessili si compravano all’estero. La più importante impresa industriale del Paese era il cotonificio di Annecy, con 900 operai e 420 telai sparsi. Il cotone però si importava per tre quarti dagli Stati Uniti. In casa si lavoravano la canapa e il lino «nelle classi più bisognose della popolazione rurale, e particolarmente nella stagione e nelle ore men proprie alla coltivazione delle terre» (Giulio). Le banche come le intendiamo noi non esistevano, si prendevano i soldi in prestito dai ricchi privati, che ti facevano aspettare in anticamera, e tra questi pure i Cavour. Le grandi famiglie erano nello stesso tempo intente alla benificenza e all’usura. A Genova, ancora senza Ansaldo, la cantieristica consisteva alla fine in grandi capannoni rumorosi di falegnameria.
E le altre ossessioni?
Almeno un’altra ossessione. Quella dei mendicanti in città e della crescita della popolazione a Torino. S’era cercato di frenare l’accattonaggio dando una patente per chiedere l’elemosina, in teoria il povero poteva stendere la mano solo se fornito di apposita placca bene in vista sull’abito. Sappiamo già che la città era cresciuta, ogni quattro nascite c’era un bastardo, le prostitute accorrevano a frotte (alla fine degli anni Quaranta erano un duemila), c’erano più famiglie che case e nei condomìni - condomìni immensi, neri di corridoi e ringhiere - si viveva ammassati. Specialmente a Ognissanti era un’invasione, «migliaia di pezzenti, disoccupati, lavoratori stagionali, anche piccoli proprietari sciamavano verso la capitale pure da località lontane, per disporsi in fila sui bordi della strada del Regio Parco che conduceva al nuovo cimitero e impetrare l’elemosina» (Levra).
Perché proprio a Ognissanti?
A novembre finiva l’anno in campagna, bisognava restituire al padrone gli anticipi.
Un massa di schiavendai o di avventizi preferiva scappare e venire a cercar fortuna in città. Gli schiavendai erano salariati fissi, gente che doveva cavarsela con una ventina di centesimi al giorno e a cui, secondo i calcoli del Prato, mancava almeno un terzo del salario necessario a procurarsi l’indispensabile.