ALBERTO GEDDA, Tuttolibri-La Stampa 30/10/2010, pagina XI, 30 ottobre 2010
Intervista a Max Frezzato: “Cappuccetto Rosso, la mia icona beat” - Lucca Comics & Games - la più importante rassegna italiana dedicata al fumetto, ai giochi di ruolo e all’illustrazione - da ieri all’1 novembre rende omaggio ai quattro giorni di musica e libertà del festival di Woodstock che nel 1969 portò sul palco speranze e denunce, utopie e contraddizioni
Intervista a Max Frezzato: “Cappuccetto Rosso, la mia icona beat” - Lucca Comics & Games - la più importante rassegna italiana dedicata al fumetto, ai giochi di ruolo e all’illustrazione - da ieri all’1 novembre rende omaggio ai quattro giorni di musica e libertà del festival di Woodstock che nel 1969 portò sul palco speranze e denunce, utopie e contraddizioni. Così il manifesto della rassegna è una sintesi underground tra Lucca e la fiaba più celebre, Cappuccetto rosso, per ridare fiato alla fantasia nella quotidianità. Autore del manifesto è Massimiliano «Max» Frezzato, 43 anni, onirico autore di fumetti tra i più apprezzati con lavori pubblicati in Europa e negli States. Come le è nata l’idea del manifesto? «Woodstock è stata una fiaba breve, bella ma crudele. E, secondo me, la fiaba più crudele è Cappuccetto Rosso dove tutti sono in pericolo e si arriva persino al cannibalismo. Così l’ho ripresa e stravolta: il lupo non è per niente cattivo ma un chitarrista rock, la nonna una vecchietta simpatica e il cacciatore ha i fiori nel fucile come predicavano gli hippies. Naturalmente Cappuccetto qui è un’icona beat. La fiaba la racconto così a mia figlia Luna, che ha quattro anni: è bello entrare nelle favole e stravolgerle». Non è la prima volta che lo fa: è già successo con Pinocchio. «Sì e mi è piaciuto molto. Quando sono venuto a vivere in Toscana, a Montepulciano, una galleria di Parigi mi ha chiesto di ridisegnare Pinocchio e l’idea mi è subito piaciuta ma non avevo fatto i conti con i problemi pratici. Ci eravamo appena trasferiti e cosi gli "arnesi" erano impacchettati negli scatoloni e non avevo neanche un tavolo dove poter disegnare. Così mi sono inventato stili diversi su formati e supporti diversi in tempi diversi per cui alcune tavole hanno addirittura due date di realizzazione. Ci ho messo tre anni a concludere il lavoro dal quale l’editore Paganelli ha poi tratto un port-folio e un volume tascabile». Storia finita con Pinocchio? «No. Ho deciso di riprendere in mano il personaggio per immaginarlo nella sua presunta evoluzione a bambino: lui si rompe davvero a fare il bravo bimbo educato e diligente, così ritorna ad essere il burattino libero e "cattivo" creato da Geppetto». Il suo è un fumetto d’autore, personalissimo, con uno stile ben preciso: ha mai pensato di lavorare per una serie non sua? «Sì, è successo. L’editore Bonelli mi aveva cercato per realizzare un episodio di Dylan Dog, l’indagatore dell’incubo. Ho disegnato 17 pagine ma poi ho desistito perché non riuscivo a stare dietro a scadenze, impegni, sceneggiature di altri. Bonelli ha capito ed è stato un signore. La storia l’ha poi realizzata un altro disegnatore». Però ha lavorato su un personaggio non suo: è successo per la saga di "Wolverine", il super eroe della Marvel Comics creato dai grandi Chris Claremont e Frank Miller. «Vero ed è stato divertentissimo. Era una storia in bianco e nero nella quale prendevo in giro il super eroe facendone un vero coatto. L’hanno definita la storia più stupida di Wolverine e io ne sono particolarmente fiero. Ho ricercato l’agente della Marvel che mi aveva commissionato il lavoro, ma mi hanno detto che ora fa l’avvocato in California… Stupendo!». Oggi il mercato del fumetto sembra essere spaccato sostanzialmente in due parti: i personaggi seriali oppure le graphic novel, con pochissimo spazio per altre forme di racconto. Lei ha realizzato la lunga saga de «I custodi del Maser» ma anche la graphic novel «Tour de France» (edite in più Paesi e in Italia da Vittorio Pavesio) e altri racconti «liberi». «Non mi piace essere ingabbiato in una definizione. Per I custodi del Maser ho lavorato dieci anni cambiando stile in ogni episodio. All’inizio cesellavo i dettagli con il colore, poi sono passato alla sintesi, ora riesco ad essere più impressionista. Ho studiato molto sui colori: ogni giorno provo e riprovo e poi provo ancora. Per i Custodi mi sono rifatto a J.R.R. Tolkien, ma anche a Hugo Pratt però lui era un gran signore i cui personaggi erano "veri" mentre i miei sono semplici pupazzi. Poi con il Tour de France è stata un’esperienza diversa: nel 2005 ho girato per la Francia con la mia nuova fidanzata e quindi il lavoro ha risentito dell’amore, dell’entusiasmo… Ora lavoro ad una storia di fantascienza demenziale della quale presento 5 tavole a Lucca: è una sorta di guida galattica per autostoppisti». Il cahier de voyage del «Tour de France» è sicuramente una graphic novel. «Certo, possiamo sicuramente definire così quel lavoro. Ma anche altri. Le definizioni sono semplici etichette per i generi: l’importante è raccontare qualcosa. A Lucca, ad esempio, sono in mostra i lavori di giovani fumettisti libanesi e mi ha molto colpito il racconto in una sola pagina nella quale c’è una piantina con un sentiero nel nulla e le indicazioni "corri, abbassati, cecchino, striscia". La didascalia dice: "Questa è la strada che faccio ogni giorno per andare a scuola". Bellissimo. Essenziale: c’è tutto. E’ una graphic novel? Secondo me sì, ma poco importa. E’ forte». E tra i suoi colleghi contemporanei chi apprezza di più? «Sono molti, moltissimi. Davvero. Difficile elencarli tutti. C’è il bravissimo cinese Zhang Bin Benjamin, Alessandro Barbucci (primo disegnatore delle Witch, ndr), Davide Toffolo, Fabio Ruotolo, i giovani disneyani. Ci sono tanti talenti in giro a fare concorrenza, mannaggia!». Il suo è un fumetto segnato da un’apparente leggerezza che nasconde però un gran lavoro. «Diciamo che a me, in tutto, piace mettere alcune gocce di limone, un po’ di agro. Io cerco di non finire negli ingranaggi: preferisco stare con mia figlia, lavorare nell’orto e poi lavorare per me. Ho anche pensato all’autoproduzione: fare un fumetto, stamparlo e poi venderlo direttamente in piazza per vedere cosa succede e guardare in faccia chi lo compra e chiacchierare con lui. Come un vero artigiano in una vita più vera, insomma». Per rifarci alla cultura beat e underground: una risata vi seppellirà? «Sì, mi piacerebbe tanto. Mi manca tantissimo Giorgio Gaber, amo Robert Crumb con il suo sguardo acidamente umoristico. Mi sembra che oggi gli intellettuali siano ripiegati su se stessi e che si prendano troppo sul serio». Quali sono stati i libri della sua adolescenza, della sua formazione? «Sostanzialmente le Sturmtruppen di Bonvi e Mafalda di Quino: erano di formato piccolo e riuscivo a nasconderli nei pantaloncini. Ora amo Jorge Luis Borges: i «Meridiani» con le sue opere sono la mia Bibbia. E poi ci sono Carlos Castaneda, Alejandro Jodorowsky, Jean Claude Izzo… ma anche Arzak di Moebius e i film La carica dei 101, Frankestein junior, Blade Runner». E per quanto riguarda i suoi colleghi? «Mi piace la contaminazione dei generi che diventa affinità. Apprezzo tutti quelli che credono nel lavoro e che gestiscono con sapienza il loro tempo stabilendo che le loro idee non sono in vendita, ma magari in affitto. E ce ne sono tanti. Da Moebius a Miyazaki, da Cavazzano a Gipi, Bilal, Eleuteri Serpieri… Mio papà e mio zio erano appassionati di fantascienza (Isaac Asimov, Philip Dick) e di grandi fumetti come Blueberry di Jean Giraud, Moebius e gli albi di "Magnus" Roberto Raviola. Ecco, tutto è cominciato allora, con quelle lunghe letture e grande piacere. Con le gocce di limone a condire il piacere».