GIOVANNI TESIO, Tuttolibri-La Stampa 30/10/2010, pagina III, 30 ottobre 2010
Travet, Sanssôssì e la bella Gigogin probiviri d’ Italia - Quanto hanno contribuito gli scrittori piemontesi alla storia dell’Italia unita? Non dico Massimo d’Azeglio o Edmondo De Amicis, ma Bersezio, ma Faldella, ma Sacchetti, ma Gramegna, ma Augusto Monti? Piemontesi di posizione e di misura magari meno illustri, ma di peso non irrilevante
Travet, Sanssôssì e la bella Gigogin probiviri d’ Italia - Quanto hanno contribuito gli scrittori piemontesi alla storia dell’Italia unita? Non dico Massimo d’Azeglio o Edmondo De Amicis, ma Bersezio, ma Faldella, ma Sacchetti, ma Gramegna, ma Augusto Monti? Piemontesi di posizione e di misura magari meno illustri, ma di peso non irrilevante. Non giacenze larvali o animucce pallide, ma scrittori che hanno lasciato opere oneste, e in ogni caso non insignificanti. Nonostante lo scarto di generazione, nella lista dei possibili, Bersezio e Faldella (Bersezio è del 1828, Faldella del ‘46) costituiscono una sorta di coppia, se è stato Gianfranco Contini a sottolinearne la carriera affine, sospirando un po’ sulla comune china di scrittori che diventano storici aneddotici del Risorgimento: Bersezio passando dalla sua attività di promotore culturale e di autore teatrale (ben sue le probe Miserie ’d Monsù Travet, che piacquero al Croce) per dedicarsi ai volumi giornalistici e sabaudistici del suo Regno di Vittorio Emanuele II; Faldella abbandonando la sua carica di stilistico eversore per trasformarsi in un sopravvissuto cultore di epopee patriottiche e di discorse retoriche recitate nei banchetti celebrativi. Non così Roberto Sacchetti, che fu forse la morte precoce a preservare dal peggio. Lui a scrivere con Entusiasmi (dove il titolo va letto almeno un po’ a rovescio) uno tra i romanzi più espliciti del «quarantotto» milanese specialmente leggibile attraverso il personaggio più riuscito, che è l’architetto Fontana. Nel suo carattere rigoroso e asciutto - capace di fare uso della ragione anche nei momenti dei furori collettivi - si rispecchia l’evidente l’appello alla matrice di un sabaudismo concreto, non velleitario. A fuochi spenti - ossia a «rivoluzione» fallita - c’è chi espatria, c’è chi parte per Venezia («a imparare come si muore per la patria»), mentre lui - Fontana - torna nella Torino che dal ‘49 al ‘59 sarà «La Mecca» dei rifugiati - recitando epigrafico come un eroe di Alfieri: «Invece io vo in Piemonte a vedere come si fa a vivere liberi». Nella generale cifra della fedeltà dinastica, il sabaudista-principe fu tuttavia Luigi Gramegna (coincidenza curiosa: anno di nascita e di morte perfettamente coincidenti con quelli di Faldella), un autore su cui un altro Luigi, Einaudi, scrisse cose lusinghiere. Oltre che nelle epopee indigene tratte da tutta la storia del Vecchio Piemonte - dal Quattrocento all’Unità - il sabaudismo di Gramegna è concentrato nel saggio Sabaudia docet pubblicato a Torino da Carlo Clausen nel 1896 e poi riproposto nelle edizioni Viglongo con il titolo più esplicito di Caratteri della monarchia e del popolo piemontese. I suoi romanzi propriamente risorgimentali sono tre: I due droghieri, Addio, mia bella, addio!... e Fides (ristampati insieme da Giovanna e Franca Viglongo con il titolo La bella Gigogin). Il primo è tutto torinese e si svolge ai tempi della seconda guerra di indipendenza, cioè nel 1859, mettendo in scena i risentimenti, i contrasti, i dispetti di due soci in affari politicamente avversi, che però - sia grazie alla forza dell’amore che spira tra la figlia dell’uno e il figlio dell’altro, sia grazie all’eccezionale «exploit» diplomatico di papà Camillo, ovvero di Camillo Benso conte di Cavour - riescono a convivere in un rapporto di reciproca tolleranza. Il secondo si svolge nella stessa guerra sullo scenario lombardo-veneto e narra le irresistibili imprese di un giovane conte e del suo solido portinaio Carlone, «bon à tout faire», che azeglianamente combattono la loro battaglia con estremo slancio e reciproca affezione. Il terzo è piuttosto un «divertissement» sullo sfondo della presa di Roma, che vede di scena una marchesina piena di gusto del nuovo. Un romanzo diverso dai primi due per il tratto parodico che ne contrassegna certe figure, specie quella del buffo professor Molosso, in cui vengono effigiate le esagerazioni delle teorie lombrosiane. Da tutti e tre scaturisce una lettura che si fa col sorriso sulle labbra, come certe caricature del Fischietto o certe scene giocose di una stampa d’Épinal. A rompere il filo della continuità lealista è Augusto Monti, il repubblicano che costruisce con I Sanssôssì la genealogica saga di un’«eredità dissimilare», ossia la storia di una vocazione, che - non senza deroghe - risale attraverso il padre (Papà) fino all’età napoleonica e che - non senza disobbedienze - incarna attraverso il figlio (Carlìn) la forza di un destino. È «Papà» a interpretare al meglio l’emblematica figura dei «sanssôssì» a cui il titolo allude: non lo «spensierato», come spesso si equivoca, ma l’«illuso», l’«idealista», il donchisciottesco cacciatore di sogni e di chimere universaliste a cui la vita di «Carlìn» toccherà restituire la debita compiutezza e nobiltà. Attraverso Croce, Monti concepisce la storia come perenne incremento di civiltà. Attraverso Salvemini si nutre di riferimenti che arrivano al Cattaneo. Attraverso Gobetti si piega al pensiero illuministico più eretico, attingendo poi di suo al pozzo del socialismo e dell’attivismo meridionalista. Al suo interventismo «democratico» appartiene l’idea del Risorgimento da completare. All’impegno antifascista corrisponde l’esempio delle tante prigioni che con Pellico e Settembrini di certo non furono - come dimostrano le Lettere a Luisotta - le sue ultime Muse.