PIERGIORGIO ODIFREDDI, la Repubblica 29/10/2010, 29 ottobre 2010
LE TECNOLOGIE POVERE SALVERANNO IL MONDO"
Bunker Roy è il fondatore del Barefoot College (Università degli Scalzi) di Tilonia, nel Rajastan: un´anti-istituzione accademica che accoglie analfabeti ed emarginati provenienti dagli stati più poveri e dai villaggi più sperduti dell´India e dell´Africa, in buona parte donne, per fornire loro un insegnamento in sintonia con la sapienza tradizionale locale e in antitesi con la tecnologia avanzata occidentale. La sua ormai trentennale esperienza è raccontata in Raggiungere l´ultimo uomo di Maria Pace Ottieri (Einaudi, 2008), che descrive come Bunker Roy abbia perseguito la missione di arginare il costante flusso della popolazione dai villaggi alle città, basando principalmente il suo modello di sviluppo sostenibile su due «tecnologie povere»: la raccolta dell´acqua piovana e l´energia solare.
Lei parte dal presupposto che l´educazione formale è inutile. Ma, in fondo, non l´ha ricevuta anche lei?
«Certo, io ho ricevuto la migliore educazione che potessi ricevere in India, frequentando scuole ottime e carissime! Ma quando mi sono avventurato per la prima volta in un villaggio, ho capito che ero un arrogante: credevo di aver imparato le soluzioni ai problemi dei poveri che vivono nelle zone rurali, e invece ho dovuto disapprendere ciò che mi avevano insegnato e riapprendere tutto da capo, passando un anno a scavare pozzi e a lavorare come manovale».
Dove stava il problema?
«Nel fatto che in città si viaggia a cento all´ora, mentre nei villaggi si va a zero all´ora: non si muove niente, non succede niente. La prima lezione che ho dovuto imparare è stata che non si possono spingere le persone a svilupparsi a una velocità che per loro è innaturale».
Cosa bisogna fare, invece?
«Essere più umili, e capire il contributo che i locali possono dare alla soluzione dei propri problemi: anche gli analfabeti hanno capacità e conoscenza, ed è questo che dobbiamo sfruttare e ampliare, invece di cercare di sostituirlo con qualcosa di alternativo e alieno. E bisogna anche mostrare con l´esempio che non è una vergogna vivere e lavorare in un villaggio. Quando io ci sono andato la gente non capiva, perché l´idea dominante è che l´istruzione deve servire a liberarti dalla schiavitù del villaggio e ad aprirti le porte della città: la gente pensa che chi torna al villaggio dopo aver studiato è un fallito».
Ma è veramente possibile uno sviluppo non tecnologico?
«Il mio approccio non è demonizzare la tecnologia, ma evitare di adottarla in maniera acritica e avulsa dal contesto. Negli anni ´70 per rifornire d´acqua un villaggio trivellavamo il terreno e istallavamo pompe a mano. Ma poi ho capito che era molto più efficace tornare alla tecnologia povera che i vecchi conoscevano benissimo, e che consiste nel raccogliere semplicemente l´acqua piovana. Furono proprio gli ingegneri a fare resistenza, agli inizi, ma oggi noi raccogliamo cento milioni di litri in dodicimila scuole in quel modo».
E come fa a portare l´elettricità ai villaggi?
«Come al Barefoot College, che funziona interamente a energia solare: le lampadine, i ventilatori, i computer, tutto. E la persona che ha curato l´installazione degli impianti ha fatto soltanto le medie ed è semianalfabeta. È proprio questa miscela di tradizionale e moderno che ci caratterizza».
Evitate completamente la rete elettrica?
«È molto più conveniente evitarla! Anzitutto, perché in India l´energia elettrica è completamente privatizzata, e oltre a pagare gli allacciamenti si rischia di non avere comunque il servizio per molte ore al giorno, in quanto l´uso industriale ha la precedenza su quello domestico. Inoltre, questa aleatorietà del servizio fa sì che nei villaggi si continuino comunque a usare altre fonti di illuminazione, dal kerosene al diesel alle candele. Dove abbiamo introdotto l´energia solare, invece, l´elettricità è disponibile ventiquattr´ore al giorno ed è stato possibile risparmiare cinquecentomila litri di kerosene».
Fortunatamente, lei non è l´unica voce indiana che canta fuori del coro. Cosa pensa, ad esempio, del lavoro del premio Nobel per la pace Rajendra Pachauri?
«Lo conosco bene. E, come si dice in inglese, we agree to disagree, "siamo d´accordo di essere in disaccordo". In particolare, io non approvo il modo in cui egli propone di risolvere i problemi ambientali. Ad esempio, il suo obiettivo di portare l´energia solare a un miliardo di persone, sottoscritto dal primo ministro, si basa sulla fornitura completa di tutto l´occorrente, comprese le infrastrutture. Il che rende i villaggi completamente dipendenti dai fornitori: anche per le piccole cose, quali i componenti e la manutenzione, che potrebbero invece essere gestite localmente in maniera più autonoma e autosufficiente».
E cosa pensa del premio Nobel per l´economia Amartya Sen, che da anni si batte perché non si usino soltanto indicatori economici nel valutare il benessere di una nazione?
«Sicuramente ha una visione globale, ma non riuscirà mai a farla accettare. Non abbiamo mai visto niente di tutto quello che lui dice che bisognerebbe fare. È un teorico, e ne abbiamo già fin troppi di strateghi che pianificano cosa si potrebbe o si dovrebbe fare. Quelli che ci mancano sono i soldati, la gente che le cose finalmente le fa!».
In India qualche soldato c´è stato, però! Ad esempio, Ramakrishna, la cui missione a Calcutta fa da più tempo, e con meno clamore mediatico, le stesse cose che l´Occidente crede essere appannaggio esclusivo di Madre Teresa.
«Ah, io li ammiro moltissimo, soprattutto perché mettono l´elemento umano davanti a tutto. Per me è l´uomo che deve sviluppare le proprie competenze, aumentare il controllo sul proprio destino e godere dei benefici. Sono contrario alla dipendenza, e tutto ciò che favorisce l´autonomia umana mi trova d´accordo».
Il suo modello si può trasferire dai villaggi agli slum delle grandi città?
«Non ci abbiamo mai provato, ma credo sia difficile. Gli slum sono società chiuse, in cui i cambiamenti non sono ben accolti. E sono società violente, in cui le cose si danneggiano e spariscono più facilmente. Nei villaggi è diverso, il tessuto sociale è più coeso».
Si può invece esportare il modello all´estero?
«È pensato per villaggi rurali e isolati. Dunque, può funzionare solo in quel contesto, ma dovunque essi siano. E infatti siamo presenti nei dieci paesi più poveri del mondo, secondo l´indice di sviluppo delle Nazioni Unite: il Mali, la Sierra Leone, il Camerun, il Ruanda, la Tanzania, il Malawi, eccetera».
Immagino che lei non veda invece di buon occhio una cooperazione con l´Occidente.
«No, infatti. Penso che si debba evitare ogni flusso verticale dal Sud al Nord del mondo, e ogni formazione che non sia basata su uno sviluppo sostenibile. Sono invece molto favorevole al flusso orizzontale tra Africa, America Latina e Asia, che hanno culture da un certo punto di vista simili. È la collaborazione tra Sud e Sud quella che importa e che funziona, non quella tra Est e Ovest».