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 2010  ottobre 28 Giovedì calendario

Stasera siamo tutti invitati all’happy hour della morte - Metti una morte a cena. O a pranzo, o a colazione

Stasera siamo tutti invitati all’happy hour della morte - Metti una morte a cena. O a pranzo, o a colazione. Quando lo stoma­co­fa sentire la pro­pria sommessa protesta (a pensarci bene la più vitale e ottimista delle rivendica­zioni possibili), forse, sotto quel languorino, in fondo di natura pu­ramente meccanica, si nasconde un altro tipo di mancanza: il vuo­to esistenziale originato dalla mancanza di una persona cara. E allora che si fa? Ci si ritrova, a ce­na, pranzo o colazione, per man­giare e bere qualcosa e, contem­poraneamente, per esorcizzare il dolore seguito a una scomparsa o, più genericamente, la paura della Fine. Non è una novità, l’idea lancia­ta dal sociologo e antropologo svizzero Bernard Crettaz nel suo libro Cafés mortels . In primo luo­go non lo è in quanto Crettaz fon­dò la «Società di studi tanatologi­ci » della Svizzera francese un bel po’ di tempo fa,all’inizio degli an­ni Ottanta, insieme alla sua com­pagna Yvonne Preiswerk. Ma so­prattutto perché il legame fra la convivialità amichevole e famili­stica e la riflessione sul comune destino dei sodali riuniti attorno a un tavolo attraversa tutta la sto­ria dell’umanità. Partendo, a esempio, dal dialogo platonico più «funereo», il Fedone , per arri­vare all’ampio ventaglio di tradi­zioni presenti ancor oggi a ogni latitudine che fanno seguire al­l’addio al caro estinto una ( solen­ne o leggera) delibazione. E ma­gari passando attraverso i Tropi­ci, più o meno tristi che siano, del­le popolazioni primitive o i raffi­nati culti egizi, in cui la precisio­ne ridondante e quasi barocca delle disposizioni post mortem si associa a una metafisica di grana estremamente fine. Ma la presunta «crema» della società attuale, vale a dire quel­l’Occidente che Zygmunt Bau­man vede ridotto miseramente al­lo stato «liquido» mentre i fautori dell’ happy hour preferiscono soli­do come i bigliettoni che intasca­no puntualmente ogni giorno al­l’ora dell’aperitivo, è davvero in grado di reggere,oltre all’alcol in­gurgitato, il confronto con la Si­gnora armata della canonica fal­ce? È il quesito che sta alla base della nuova moda francese, cui il quotidiano Libération ha dedica­to ieri una pagina. Basta con il buonismo e i con i discorsi «del più e del meno» che lasciano il tempo che trovano, suggerisce Crettaz: impariamo a dedicarci a qualche cosa di più «alto» senza timore di apparire politicamente scorretti o, peggio, socialmente plumbei e respingenti. «La morte -spiega lo studioso-se l’è sempre accaparrata il potere. E se un tem­po si trattava del potere della Chiesa, oggi tocca al potere della medicina, la quale diffonde il mi­to illusorio della morte controlla­ta, buona, lenta e dolce. Tutto questo è pericoloso, perché fa pensare alla morte come a una malattia. Ma non lo è, al contra­rio: è la nostra condizione uma­na ». Il richiamo alla Chiesa e al­l’ auctoritas che l’ha ormai rim­piazzata contiene già il passo suc­cessivo, cioè il rilancio di un certo neopaganesimo da brasserie , spesso e volentieri condito dal­l’auto- analisi psicologica sulle modalità di elaborazione del lut­to. La gente arriva nel locale, ordi­na un drink , si accomoda e inve­ce di spettegolare sui flirt di Carlà o di dire la propria sull’ultimo ro­manzo di Houellebecq, spiattella il ricordo di quando dovette an­nunciare alla propria moglie la morte di sua madre, o di quando, parlando con un amico, si riesce a uscire dal tunnel della depres­sione seguita a un funerale... Insomma, i caffè filosofici che anche da noi si stanno lentamen­te popolando di studenti fuori corso con barbetta e professori à la page , annoiate signore dell’al­ta borghesia desiderose di prova­re brividi culturali e pensionati stanchi delle sfide a bocce o a bri­scola chiamata, dovranno corre­re ai ripari e adeguarsi organiz­zando serate o pomeriggi a tema sul Libro tibetano dei morti o su­gli anfratti più bui della dottrina di Hans Georg Gadamer. Se non lo faranno, sarà la loro... morte ci­vile, e dovranno riposizionarsi sul mercato ripiegando sulle ab­buffate da Champions League. A proposito di abbuffate (e di Francia), la bulimia tanatologica proposta da Bernard Crettaz ci ri­chiama alla memoria un film che la critica, notoriamente debole di stomaco, faticò a digerire, per non dire che le vomitò addosso i peggiori giudizi: La grande bouf­fe , di Marco Ferreri (1973), dove morte e cibo sono gli estremi stret­ti nell’abbraccio fatale. Marcello Mastroianni, Michel Piccoli, Phi­lippe Noiret e Ugo Tognazzi deci­dono di suicidarsi nella maniera più assurda e contraddittoria, in­gozzandosi fino a scoppiare. Ma loro non sono degli intellettuali, bensì un pilota dell’Alitalia, un produttore televisivo, un magi­strato e un ristoratore. E proprio per questo riescono a spiegarci, fra un rutto e un peto, che non sol­tanto siamo ciò che mangiamo, ma anche ciò che vorremmo esse­re e non facciamo in tempo a di­ventare.