Daniele Abbiati, il Giornale 28/10/2010, pagina 27, 28 ottobre 2010
Stasera siamo tutti invitati all’happy hour della morte - Metti una morte a cena. O a pranzo, o a colazione
Stasera siamo tutti invitati all’happy hour della morte - Metti una morte a cena. O a pranzo, o a colazione. Quando lo stomacofa sentire la propria sommessa protesta (a pensarci bene la più vitale e ottimista delle rivendicazioni possibili), forse, sotto quel languorino, in fondo di natura puramente meccanica, si nasconde un altro tipo di mancanza: il vuoto esistenziale originato dalla mancanza di una persona cara. E allora che si fa? Ci si ritrova, a cena, pranzo o colazione, per mangiare e bere qualcosa e, contemporaneamente, per esorcizzare il dolore seguito a una scomparsa o, più genericamente, la paura della Fine. Non è una novità, l’idea lanciata dal sociologo e antropologo svizzero Bernard Crettaz nel suo libro Cafés mortels . In primo luogo non lo è in quanto Crettaz fondò la «Società di studi tanatologici » della Svizzera francese un bel po’ di tempo fa,all’inizio degli anni Ottanta, insieme alla sua compagna Yvonne Preiswerk. Ma soprattutto perché il legame fra la convivialità amichevole e familistica e la riflessione sul comune destino dei sodali riuniti attorno a un tavolo attraversa tutta la storia dell’umanità. Partendo, a esempio, dal dialogo platonico più «funereo», il Fedone , per arrivare all’ampio ventaglio di tradizioni presenti ancor oggi a ogni latitudine che fanno seguire all’addio al caro estinto una ( solenne o leggera) delibazione. E magari passando attraverso i Tropici, più o meno tristi che siano, delle popolazioni primitive o i raffinati culti egizi, in cui la precisione ridondante e quasi barocca delle disposizioni post mortem si associa a una metafisica di grana estremamente fine. Ma la presunta «crema» della società attuale, vale a dire quell’Occidente che Zygmunt Bauman vede ridotto miseramente allo stato «liquido» mentre i fautori dell’ happy hour preferiscono solido come i bigliettoni che intascano puntualmente ogni giorno all’ora dell’aperitivo, è davvero in grado di reggere,oltre all’alcol ingurgitato, il confronto con la Signora armata della canonica falce? È il quesito che sta alla base della nuova moda francese, cui il quotidiano Libération ha dedicato ieri una pagina. Basta con il buonismo e i con i discorsi «del più e del meno» che lasciano il tempo che trovano, suggerisce Crettaz: impariamo a dedicarci a qualche cosa di più «alto» senza timore di apparire politicamente scorretti o, peggio, socialmente plumbei e respingenti. «La morte -spiega lo studioso-se l’è sempre accaparrata il potere. E se un tempo si trattava del potere della Chiesa, oggi tocca al potere della medicina, la quale diffonde il mito illusorio della morte controllata, buona, lenta e dolce. Tutto questo è pericoloso, perché fa pensare alla morte come a una malattia. Ma non lo è, al contrario: è la nostra condizione umana ». Il richiamo alla Chiesa e all’ auctoritas che l’ha ormai rimpiazzata contiene già il passo successivo, cioè il rilancio di un certo neopaganesimo da brasserie , spesso e volentieri condito dall’auto- analisi psicologica sulle modalità di elaborazione del lutto. La gente arriva nel locale, ordina un drink , si accomoda e invece di spettegolare sui flirt di Carlà o di dire la propria sull’ultimo romanzo di Houellebecq, spiattella il ricordo di quando dovette annunciare alla propria moglie la morte di sua madre, o di quando, parlando con un amico, si riesce a uscire dal tunnel della depressione seguita a un funerale... Insomma, i caffè filosofici che anche da noi si stanno lentamente popolando di studenti fuori corso con barbetta e professori à la page , annoiate signore dell’alta borghesia desiderose di provare brividi culturali e pensionati stanchi delle sfide a bocce o a briscola chiamata, dovranno correre ai ripari e adeguarsi organizzando serate o pomeriggi a tema sul Libro tibetano dei morti o sugli anfratti più bui della dottrina di Hans Georg Gadamer. Se non lo faranno, sarà la loro... morte civile, e dovranno riposizionarsi sul mercato ripiegando sulle abbuffate da Champions League. A proposito di abbuffate (e di Francia), la bulimia tanatologica proposta da Bernard Crettaz ci richiama alla memoria un film che la critica, notoriamente debole di stomaco, faticò a digerire, per non dire che le vomitò addosso i peggiori giudizi: La grande bouffe , di Marco Ferreri (1973), dove morte e cibo sono gli estremi stretti nell’abbraccio fatale. Marcello Mastroianni, Michel Piccoli, Philippe Noiret e Ugo Tognazzi decidono di suicidarsi nella maniera più assurda e contraddittoria, ingozzandosi fino a scoppiare. Ma loro non sono degli intellettuali, bensì un pilota dell’Alitalia, un produttore televisivo, un magistrato e un ristoratore. E proprio per questo riescono a spiegarci, fra un rutto e un peto, che non soltanto siamo ciò che mangiamo, ma anche ciò che vorremmo essere e non facciamo in tempo a diventare.