Pietro Saccò, varie, 29 ottobre 2010
CASA DI PROPRIETA’ O IN AFFITTO?, PER VOCE ARANCIO
(prima versione, integrale) -
Non toccateci il mattone. Gli italiani saranno anche pronti a cambiare idea sui partiti, sull’allenatore della Nazionale o addirittura sulla religione. Ma c’è una convinzione che non abbandonerebbero per niente al mondo: “Il mattone non tradisce mai”. La casa bisogna comprarla, hanno ribadito i lettori interrogati dal sondaggio di VoceArancio, schiacciando con un definitivo 9 a 1 i tifosi dell’affitto. La maggioranza ha sempre ragione? Ha più di una ragione, in questo caso, ma ha anche qualche torto.
Vive in una casa di proprietà il 72,6% della popolazione italiana. Il 14,8% sta pagando un mutuo sull’abitazione, mentre il 57,8% ha già finito di pagare le rate o non ha avuto bisogno di indebitarsi per comprare. Il 27,4% degli italiani, invece, vive in affitto. Gli affittuari autentici, però, sono di meno: il 13,1%, perché gli altri (il 14,2%) hanno condizioni privilegiate come i canoni ridotti o hanno la casa in comodato d’uso gratuito (magari perché gliela ha concessa un parente), e quindi non pagano affatto.
Le abitudini immobiliari degli italiani in realtà sono in linea con la media europea. I dati Eurostat dicono che abita una casa di proprietà il 72,1% dei cittadini europei. I più affezionati tifosi del mattone sono nell’Est del Vecchio continente: in Romania è proprietario il 96,5% della popolazione e sono sopra quota 85% anche Bulgaria, Ungheria, Slovacchia, Lituania e Norvegia. Colpisce però che le principali economie del continente abbiano meno interesse nel comprarsi casa: vive in una casa di proprietà il 50,5% dei tedeschi e il 62% dei francesi. In Spagna ha comprato la casa in cui vivere l’82% della popolazione.
Difficile dire chi abbia fatto (o stia facendo) davvero la scelta giusta. I calcoli corretti sulla validità di un investimento si possono fare solo alla fine, quando si lascia un appartamento in affitto o quando si vende la casa comprata. Nel frattempo, però, si può capire quale potrebbe essere la scelta più adatta alle proprie esigenze tenendo conto delle tante variabili che sono in gioco.
«La variabile più importante – ci spiega Piero Terranova dell’ufficio studi di Tecnocasa – è il capitale iniziale che si ha disposizione. La disponibilità di molto capitale ci permette di ridurre i costi di finanziamento, che sono poi la spesa più grossa, di solito, quando si va a comprare». Più soldi si hanno in cassa, e quindi meno ci si deve indebitare, più l’acquisto può essere la soluzione migliore.
La nostra liquidità di partenza è decisiva anche perché ci aiuta a comprendere quali sono le opzioni reali che abbiamo davanti. "«Se abbiamo poco capitale possiamo scegliere di andare in un appartamento che, con un mutuo, non ci potremmo permettere di acquistare. Lo stesso appartamento, se abbiamo un capitale più sostanzioso, potrebbe essere alla nostra portata», dice Terranova. Significa che, in generale, in affitto si possono abitare case che non ci si potrebbe permettere di possedere. E questa è un’altra scelta da valutare con attenzione prima di procedere.
Nel mondo anglosassone c’è un nome per definire l’anno in cui si smette di pagare il mutuo. è l’house freedom year e si calcola mettendo in relazione i prezzi delle case e i salari. secondo questi calcoli è possibile determinare quanti anni (e stipendi) ci vogliono per comprare una casa. Immaginate di prendere lo stipendio e dedicarlo intermanete alla casa, senza spendere neppure i soldi per un caffè. Vi ci vorranno in media dodici anni (140 mesi di guadagni) per comprare un bilocale in una grande città. nel 1999 sarebbero bastati 7,5 anni. ciò significa che in dieci anni il potere d’acquisto immobiliare è diminuito del 57,5%. A Roma gli anni necessari sono 14,1, a Milano 11,5, a Venezia e Salerno 17. A Biella 3,9.
Facciamo un esempio: ho 30 anni, un contratto a tempo indeterminato che mi assicura 2 mila euro al mese, e voglio comprare una prima casa, un bilocale a Milano, in centro. Ne trovo uno che fa al caso mio a 200 mila euro. Ho a disposizione 50 mila euro, per gli altri 150 mila faccio un mutuo fisso a 15 anni con ING DIRECT, al 4,42% (l’indice sintetico di costo è al 4,51%). Mi propongono una rata da 1.141,37 euro al mese. Alla fine dei 15 anni per quella casa avrò speso 50 mila euro di mia liquidità e 205.446 euro di mutuo. Per ora non teniamo conto di inflazione e rivalutazione dell’immobile: ho speso 255.446 euro. Se fossi partito con 150 mila euro miei, e quindi ne avessi chiesti in prestito solo 50 mila, con lo stesso mutuo a 15 anni la rata sarebbe stata di 380,46 euro al mese. Dopo 15 anni avrei speso 150 mila euro iniziali più 68.482 euro di mutuo. La casa mi sarebbe costata 218 mila euro e rotti.
Alle spese iniziali va aggiunto qualcosa. ING DIRECT mi regala le spese di istruttoria e di perizia che, in media, ammontano a 600 euro complessivi. Se poi ho scelto di passare per un’agenzia immobiliare devo pagare una tariffa che di solito ammonta al 3% del costo dell’immobile. Nel mio caso sono 6 mila euro. Poi c’è la tassa sulla compravendita che, nel caso di una prima casa, si calcola in base alla rendita catastale dell’immobile, e sono altri 400 euro. L’imposta di registro vale il 3% del prezzo catastale (diciamo 3000 euro) mentre l’imposta ipotecaria e quella catastale per la prima casa sono fissate entrambe a 168 euro. Ci devo aggiungere 2 mila euro per l’atto notarile di compravendita. Poi l’atto notarile di mutuo da 2 mila euro e l’imposta sul mutuo, allo 0,25% dell’importo (550 euro). In totale fanno più o meno 13 mila euro di spese che possiamo considerare “a fondo perduto”.
Un altro 30enne, con gli stessi 50 mila euro da parte, trova un appartamento in affitto. Costa mille euro al mese, 900 di canone e 100 di spese condominiali, offre un contratto tradizionale di locazione, il classico 4+4. Lo trova tramite un’agenzia che per i suoi servizi chiede una mensilità a lui e una al proprietario. Al proprietario vanno anche tre mesi anticipati da versare come cauzione, sui quali matureranno gli interessi legali (fissati ogni anno dal ministero del Tesoro). Poi deve pagare i bolli ogni quattro facciate del contratto (si ferma a 4, sono 14,86 euro). Infine lui e il proprietario si dividono la tassa di registro, pari al 2% del canone annuale (quindi 120 io e 120 lui). Mettendo assieme le spese sostenute ha pagato 1.134,86 euro che può considerare “a fondo perduto”. I 50 mila euro di capitale li mette in un conto deposito che gli offre un interesse del 2% netto all’anno.
Passano 12 mesi. Il 30enne che ha comprato casa ha speso 77.696 euro: 50 mila di capitale per l’acquisto, 13 mila di spese varie, 13.696 euro di mutuo e 1.500 di spese condominiali. Quello in affitto ha speso 12 mila tra canone e spese condominiali più i 1.134 euro e rotti che gli sono serviti all’inizio. In più i soldi affidati al conto deposito gli hanno fruttato mille euro che lascia sul conto per aumentare il capitale.
È ovvio che a questo punto bisognerà aggiungere qualche altra variabile. Per il contratto in affitto conta l’inflazione, a cui ogni anno si adegua il canone. Nel nostro esempio mettiamo un’inflazione molto normale: un 2% all’anno. Ipotizziamo che allo stesso ritmo crescano anche le spese condominiali che si gonfiano sia per chi acquista che per chi affitta. Quindi introduciamo un’altra variabile decisiva: il prezzo della casa. Facciamo che il mercato funziona come dovrebbe: ogni anno le case si rivalutano seguendo l’indice generale dei prezzi. La crescita, anche in questo caso, sarà allora di un 2% annuo.
A queste condizioni, alla fine del secondo anno entrambi fanno il bilancio di questi primi 24 mesi. L’affittuario ha dato al proprietario di casa, tra canone e spese condominiali, 24.362 euro. I 50 mila euro che aveva messo da parte alla fine del secondo anno sono diventati 52.020. Possiamo allora dire che le sue scelte abitative, combinate con il suo investimento, gli danno un saldo tra uscite ed entrate di 22.342 euro (le spese per l’affitto meno gli interessi sul deposito). Vista in un’altra ottica può dire che aveva asset per 50 mila euro e oggi gliene rimangono per 27.658 euro.
Il proprietario dopo due anni invece possiede una casa che adesso vale 208.800 euro. Dire che la possiede però è forse troppo, dato che prima di avere l’intera proprietà deve finire di pagare il mutuo: ci sono ancora 135.252 euro da versare. E lui dall’inizio dell’operazione di acquisto ha speso 93.423 euro: 63 mila tra capitale e spese varie, 27.393 di mutuo e 3.030 euro di spese condominiali. Se partiva, come il suo coetaneo, da 50 mila euro di asset oggi, tolte le spese del mutuo e l’indebitamento rimanente ha un patrimonio scivolato in area negativa per 20.595 euro. La differenza tra i due è di quasi 50 mila euro a favore di chi è in affitto.
Non c’è da sorprendersi. Gli analisti del mercato immobiliare lo ribadiscono: sul brevissimo periodo conviene l’affitto praticamente in ogni caso. «È chiaro che, comunque la si voglia vedere, le tradizionali spese iniziali per l’acquisto di una casa hanno bisogno di tempo per essere ammortizzate – conferma Luca Dondi, di Nomisma –. Anche per chi non dovesse indebitarsi per niente è molto improbabile riuscire a guadagnare comprando e rivendendo una casa nel giro di 24 o 36 mesi. Tra tasse e costi burocratici le spese, nella grande maggioranza dei casi, si mangerebbero tutti gli eventuali guadagni e manderebbero il saldo dell’operazione in passivo». Quando si vuole comprare casa, in sostanza, bisogna essere abbastanza sicuri di poterci abitare per un tempo più lungo di qualche anno.
Ma quanto tempo bisogna rimanere in una casa perché comprarla sia davvero la scelta giusta? Nel nostro esempio l’acquisto diventa conveniente dopo otto anni. Il 30enne che ha scelto la locazione infatti riesce a mantere in attivo i suoi asset per quattro anni, dopodiché anche lui, con le spese sostenute per l’affitto, scivola in patrimonio negativo. E al termine dell’ottavo anno avrà speso poco meno di 104 mila euro per l’affitto, mentre i 50 mila euro che aveva messo in un conto deposito sono diventati 58.500 e qualcosa. Ha quindi un saldo negativo per più di 45.500 euro. Il ragazzo che ha comprato, invece, ha una casa che adesso vale poco meno di 235 mila euro con circa 82 mila euro ancora da rimborsare.Tra mutuo, spese iniziali e condominiali (compresa un’annata straordinaria in cui il condominio ha fatto lavori e quindi gli ha chiesto 5 mila euro) ha messo poco più di 190 mila euro su quella casa. Il saldo è negativo per 37 mila euro. Il sorpasso è avvenuto quindi a metà del mutuo.
Da quel momento in poi più i tempi si allungano più l’affitto è poco conveniente. I calcoli del nostro esempio dicono che alla fine dell’ultimo anno di mutuo il proprietario ha speso 309.387 euro per una casa che adesso ne vale 269.174. Diciamo quindi che “abitare”, in 15 anni, gli è costato più o meno 40 mila euro. L’affittuario, invece, ha speso 209 mila euro e sul conto deposito di trova 67 mila euro. E allora “abitare” gli è costato 147 mila euro.
Tutto questo, però, succede in un mercato perfetto, dove il costo della vita sale con regolarità, il mercato immobiliare lo segue con perfetta sintonia e anche gli investimenti alternativi (come il conto deposito) hanno un rendimento pari all’inflazione. Basterebbe cambiare una di queste variabili, però, per modificare l’esito di tutto il confronto. Nel nostro esempio se il mercato immobiliare si arenasse e quindi i prezzi si fermassero (e quindi il valore della casa rimanesse sempre a 200 mila euro) servirebbero 11 anni all’acquirente per avere fatto l’affare migliore. Se invece i prezzi delle case salissero con un ritmo doppio rispetto all’inflazione il sorpasso rispetto all’affitto avverrebbe già al quinto anno.
Tecnocasa, che fa un calcolo simile a questo (lo si può leggere qui), arriva alla conclusione che dopo 10 anni la locazione è ancora conveniente, mentre il sorpasso avviene dopo 15 anni ed per poi allargarsi sempre più. Il gap finale, dopo 240 mesi, è di 80 mila euro a favore dell’acquisto. Mario Breglia, di Scenari Immobiliari, in una recente indagine era arrivato alla conclusione che «se consideriamo un periodo di 20 anni, e una quota mutuata molto alta, generalmente comprare non conviene perché la rivalutazione non paga gli extracosti del mutuo».
Serve fiducia nel mattone, quindi, per comprare casa. In Italia nel 1997 si è avviato un ciclo di crescita del mercato immobiliare che ha portato in un decennio più o meno a un raddoppio del valore degli immobili. La crisi internazionale, che proprio dall’immobiliare ha avuto origine, ha interrotto la salita. Nomisma – spiega Dondi – stima un calo dei prezzi del 6% tra il 2007 e il 2009 e una stabilizzazione con un calo leggero per quest’anno. Anche Tecnocasa si aspetta una stabilizzazione e per il primo semestre 2010 ha indicato un -0,5%. «Il momento più difficile è alle spalle, se non siamo già arrivati alla fine della curva di decrescita ci arriveremo l’anno prossimo». Nessuno, però, si sente di fare previsioni a lungo termine sul mercato del mattone anche se per gli analisti non è in vista né un crollo delle quotazioni ma nemmeno una loro impennata.
Tra il 2001 e il 2009 i prezzi delle case sono saliti del 58%, secondo le stime di Tecnocasa, quelli delle locazioni invece si sono gonfiati del 34%, mantenendosi più o meno in linea con l’inflazione. I principali uffici studi aggiungono però che almeno da due anni per vendere casa in molti sono costretti a sconti sostanziosi rispetto al valore atteso, con tagli nell’ordine del 10-15%.
Nel nostro esempio non abbiamo tento conto del fatto che qualcuno può pensare di comprare comunque, contando poi di dare la casa in affitto se per qualche motivo poi ci si dovrà trasferire. Il mettere a reddito un appartamento, nelle principali città italiane, rende tra il 3 e il 4% lordo all’anno. Tolte le spese e le tasse il guadagno si dimezza. Bisogna poi considerare i possibili mesi morti in cui si rimane senza un affittuario. Sul fronte fiscale, comunque, chi volesse affittare può trovare un aiuto nella cedolare secca in arrivo. La cedolare fissa la tassazione dell’affitto al 20% dei guadagni, a prescindere dall’Irpef. I rendimenti salirebbero di mezzo punto percentuale.
Marco Liera, esperto di investimenti per il Sole 24 Ore: «Fatti i dovuti conti, e pagate tutte le tasse, investire in case per poi affittarle può rivelarsi un pessimo investimento. E allora perché la percezione è sovente diversa? Molto semplice: perché in pochi fanno i dovuti conti (che devono includere i costi di sfitto, il rischio morosità, la manutenzione straordinaria). Certo, chi possiede immobili è convinto che, pur tenendo presente costi e tasse, la rivalutazione del mattone riesca a coprire almeno l’inflazione. E questo è quanto è accaduto fino a oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, per quanto riguarda gli acquisti fatti nei decenni passati. Ma il grande vantaggio degli immobili posseduti è quello di non avere un prezzo pubblicato tutti i giorni sui quotidiani. E torniamo alle distorsioni cognitive: se le case fossero quotate in tempo reale, il loro prezzo evidenzierebbe una grande volatilità, che allontanerebbe non pochi estimatori. L’opacità del valore delle case induce poi gli investitori privati a detenerle con il corretto orizzonte temporale (lustri o decenni). Su mercati stranieri dotati di sistemi di valutazioni più puntuali dei nostri, il prezzo delle case ha già denunciato perdite significative».
Che fare, allora? Di risposte definitive, come sempre, non ce ne sono. Sicuramente bisogna fare i dovuti calcoli prima di comprare o affittare, considerando le ragioni finanziarie dell’operazione e chiedendosi anche quanta importanza si vuole dare a quei fattori immateriali che entrano in gioco quando si parla dell’abitazione in cui vivere. La sicurezza di una casa propria o la voglia di comprare comunque magari per lasciare l’abitazione ai figli, così come la sensazione di “buttare via i soldi” che hanno molti affittuari, non si misurano con la calcolatrice.