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 2010  ottobre 29 Venerdì calendario

IL RAPPORTO 2010 DEL WWF, PER VOCE ARANCIO


Il 2010, anno internazionale della Biodiversità.
È stato presentato qualche giorno fa il Leaving Planet Report, il raport biennale realizzato dal Wwf in collaborazione con la Zoological Society di Londra e il Global Footprint Network. Che cosa ne è emerso?
L’Indice del pianeta vivente (Living Planet Index) mostra i cambiamenti dello stato di salute degli ecosistemi del pianeta valutando l’andamento di circa 8.000 popolazioni di specie di vertebrati. Dal 1970 al 2007 è diminuito del 30%. Anche se nel periodo di controllo alcune popolazioni sono aumentate e altre diminuite, in generale il numero di specie in decrescita è maggiore di quello delle specie in aumento.
Alcuni esempi. Specie in crescita: il castoro europeo (+13,1%), lo storione atlantico (+10,9%), l’elefante africano (+3,3%), l’oca collorosso (+0,6%). Specie in diminuzione: il tonno rosso (-5,8%), il caribu di Peary (-6,6%), l’albatros fuligginoso (-7,7%), lo squalo balena (-8,4%), la tartaruga liuto (-20,5%), il grifone del Bengala (-53,4%).
Il tonno rosso, che nuota sia nei mari del Sud (Southern bluefin o Thunnus maccoyii) che in quelli del Nord (Northern bluefin o Thunns Thynnus): può raggiungere i quattro metri e mezzo di lunghezza e 700 chili di peso. Va pescato dopo i 30 anni, quando raggiunge la maturità sessuale. Nei mari di tutto il mondo se ne pescano sei milioni di tonnellate (nel 1950 erano 600.000), e solo il 15% degli esemplari è in grado di riprodursi. La quota di massima cattura nel Mediterraneo è stata di 15.000 tonnellate: il 90% del pescato è stato esportato in Giappone e utilizzato per preparare il sushi. Per ridurre la mattanza, alla fine di novembre si è deciso che entro il 2010 la pesca del tonno sarà ridotta del 40%, passando da 22.000 a 13.500 catture. Marco Costantini, responsabile delle attività marine del Wwf Italia, ha fatto notare che solo pescando al massimo 8.000 tonnellate si potrebbe avere il 50% di possibilità di aumentare a sufficienza la popolazione dei tonni rossi del Mediterraneo entro il 2023.

Il 2010, «l’anno in cui si continuano a scoprire nuove specie, ma vivono più tigri in cattività che in libertà» (dal Living Planet Report).

L’impronta ecologica è un sistema di contabilità che misura la domanda dell’umanità nei confronti della biosfera e la mette a confronto con la capacità rigenerativa del pianeta. Si prendono in considerazione: le aree necessarie a fornire le risorse che le persone usano, la superficie occupata dalle infrastrutture e quella necessaria ad assorbire i rifiuti prodotti.

L’impatto con l’ambiente si è fatto più consistente dall’inizio dell’Ottocento, ma solo negli ultimi decenni è cominciata la crescita drammatica che, a parte la battuta d’arresto prodotta dalla crisi economica, non accenna ad arrestarsi. Nel 1961 l’umanità consumava la metà della biocapacità del pianeta. Nel 1986 ci siamo spinti al limite ed è arrivato il primo Earth Overshoot Day: il 31 dicembre le risorse a disposizione erano finite. Nel 1995 la bancarotta ecologica è arrivata il 21 novembre. Dieci anni dopo i conti con la natura sono entrati in rosso già il 2 ottobre.

Quest’anno, l’Earth Overshoot Day è stato il 25 settembre: il momento in cui la specie umana ha esaurito le risorse rinnovabili a disposizione e comincia a divorare quelle che dovrebbero sostenere le prossime generazioni.

Abitanti della Terra nel 2010: 6,8 miliardi. Nel 2050: 9,2 miliardi (stima del Wwf).

Per non compromettere le generazioni future, ogni abitante della Terra dovrebbe ricavare le risorse di cui ha bisogno e smaltire i suoi rifiuti in 1,8 ettari.

Oggi, a ciascun italiano servono 5 ettari per soddisfare il proprio stile di vita: un bisogno che, applicato a tutti gli esseri umani, equivarrebbe alla capacità produttiva di 2,8 pianeti. Se tutti fossimo come un abitante medio degli Emirati Arabi, avremmo bisogno di 6 pianeti, come un americano di 4,5, come un indiano di meno della metà del pianeta.

Entro il 2030 l’umanità avrà bisogno di due pianeti Terra per assorbire il biossido di carbonio immesso e fare fronte al consumo di risorse naturali.

L’impronta idrica di produzione fornisce la misura dell’utilizzo idrico nei differenti paesi. Calcola il volume di risorse idriche consumato per la produzione di merci agricole derivate da colture e bestiame.

Impronta idrica di un caffè: 140 litri.

Il 2010, «l’anno in cui 1,8 miliardi di persone utilizza Internet, ma 1 miliardo di persone non ha ancora accesso a una fornitura adeguata di acqua potabile» (dal Living Planet Report).

L’indicatore di sviluppo più utilizzato è l’Indice di sviluppo umano (Hdi) che, riunendo reddito, aspettativa di vita e livello di educazione, mette a confronto i paesi. Le Nazioni Unite individuano la soglia di alto livello di sviluppo nel valore Hdi di 0,8. Che legame c’è tra quest’indice e l’Impronta ecologica? Debole. I paesi che raggiungono o oltrepassano questa soglia, cioè i più sviluppati, hanno Impronte ecologiche pro capite sia alte e che basse: il Perù, ad esempio, registra un’impronta di 1,5 gha, il Lussemburgo di 9 gha. Non è detto quindi che un alto livello di sviluppo corrisponda a un impatto ambientale più grande.

Il Wwf, fondato l’11 settembre del 1961 in Svizzera. Promotori, fra gli altri: il biologo Sir Julian Sorell Huxley, il principe Bernardo d’Olanda, il principe Filippo d’Edimburgo, consorte della regina d’Inghilterra, Max Nicholson e il naturalista e pittore Sir Peter Scott, che disegnò il logo originale, con il Panda gigante bianco e nero, su sfondo bianco. Questi signori elaborano “il manifesto Morges” per denunciare il degrado sempre più grave che colpisce l’ambiente. Nei giorni successivi il “Daily Mirror” pubblica la notizia chiedendo aiuto ai lettori: vengono donate più di 60.000 sterline.

L’acronimo significava originariamente World Wildlife Fund (Fondo mondiale per la vita selvatica, che alcuni traducevano con natura); nel 1986, l’interpretazione di tale acronimo è stata modificata (eccetto negli Stati Uniti e in Canada) in World Wide Fund For Nature.