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 2010  ottobre 29 Venerdì calendario

QUANT’È BUONO PAPERONE, PER VOCE ARANCIO


Il 29 settembre all’Hotel Chateau Laffitte di Pechino, Warren Buffett e Bill Gates, i due uomini più ricchi d’America, hanno radunato una cinquantina di ricchissimi cinesi a cena. L’obiettivo era convincerli ad aderire al Giving Pledge (letteralmente Impegno a dare), il manifesto ideato da Gates e Buffett col quale si promette di donare metà del proprio patrimonio per cause benefiche. I ricchi cinesi, si dice, sono rimasti perplessi.
I giornali cinesi hanno chiamato quella cena “Ba Bi”, che in cinese è il nome della “Barbie” ma anche la traslitterazione dei nomi di Gates e Buffett.
In Cina la filantropia non è molto in voga. Le associazioni caritatevoli sono poche e ci sono pochi controlli sull’utilizzo delle somme donate. In più i ricchi cinesi non amano che si parli delle loro ricchezze in pubblico, perché temono che se la dimensione dei loro patrimoni dovesse rivelarsi più grande di quella stimata dal governo finirebbero nel mirino del fisco e di milioni di questuanti.
C’è anche il fatto che con la rivoluzione comunista del 1949 la Cina aveva reso obsoleta ogni forma di carità introducendo un sistema di controllo della vita dei cittadini che iniziava alla loro nascita e terminava con la loro morte. Le riforme capitalistiche degli ultimi decenni hanno scalfito solo in parte l’abitudine dei cinesi di affidarsi allo Stato. In ogni caso le donazioni, in Cina, lo scorso anno sono ammontate in tutto a 3,8 miliardi di yuan, cioè 583 milioni di dollari.
Non si sa quanto successo abbiano raccolto alla fine Buffett e Gates in Oriente. Nel loro programma di raccolta di fondi per i più poveri comunque c’è anche una tappa indiana, fissata per il prossimo marzo. Anche lì non sarà facile convincere i paperoni locali – tra i quali Laxmi Mittal, il re dell’acciaio, Ratan Tata, quello dell’auto, e Mukesh Ambani, probabilmente il project manager migliore del mondo – ad aprire i portafogli. Ci ha provato, con esiti incerti, anche il Principe Carlo d’Inghilterra lo scorso anno.
«Dove sono i nostri grandi filantropi? Come fa una nazione come la nostra a donare così poco alla sua stessa gente?», si chiedeva qualche mese fa Sonia Gandhi.
La passione filantropica dei super ricchi è un fenomeno molto occidentale e la sua esplosione è molto recente. Il Giving Pledge è il programma più ambizioso della storia della filantropia. I 40 miliardari che hanno aderito al progetto di Gates e Buffett valgono 200 miliardi di dollari di donazioni. Qualche stima arriva a parlare di 600 miliardi. Sarebbe una rivoluzione della beneficenza a livello mondiale. Buffett, personalmente, ha promesso che prima della sua morte il 99% del suo patrimonio sarà andato in beneficenza.
Ogni anno Buffett mette all’asta una cena tête-à-tête con lui (quella del 2009 è stata piazzata a 2,6 milioni di dollari) e dona il ricavato alla Glide Foundation, che cura bambini e anziani di San Francisco. Buffett e il vincitore mangiano alla steakhouse Smith & Wollensky a Manhattan.
Tra i miliardari che hanno aderito al Giving Pledge: il fondatore di eBay Jeff Skoll, il sindaco di New York Michael Bloomberg, la famiglia Rockefeller, il magnate dei media Ted Turner, il re del “venture capital” John Doerr, Larry Ellison, fondatore di Oracle, il produttore cinematografico George Lucas ecc.
Ha aderito anche Paul Allen, compagno di Gates nella fondazione di Microsoft, 13,5 miliardi di patrimonio. Spesso lo hanno criticato per la beneficenza che fa: ha fatto donazioni, tra altre cose, per mettere a punto la prima astronave privata della storia, per creare un museo del rock progettato da Frank Gehry nella forma della chitarra di Jimi Hendrix, per cercare la vita in altri pianeti, per analizzare l’urina di leopardi e leoni e metterne a punto un antidoto «da spruzzare sulle staccionate». Allen oggi è solo (è stato anche con Monica Seles, ma non è sposato e non ha figli) ed è molto malato.
La Bill & Melinda Gates Foundation, in cui partecipa anche Buffett, è la più grande fondazione benefica del mondo. Ha versato finora 33,5 miliardi di dollari in programmi contro la povertà e a favore di una migliore educazione e sanità nei paesi poveri.
In molti si sono messi a studiare questo fenomeno, che hanno definito “filantrocapitalismo”. Consiste nell’adattare sofisticate strategie finanziarie di Wall Street e di management della Corporate America alla beneficenza. Il risultato sono piani di aiuti che devono dare esiti misurabili, sul modello del mondo aziendale. I critici dicono che con questi interventi i ricchi filantropi si concentrano troppo su obiettivi a breve termine e che in questo modo la beneficenza mondiale dipende dalle loro passioni passeggere.
Michael Edwards, in passato membro del board della Ford Foundation, è stato feroce nella sua critica al filantrocapitalismo in Small change, why business won’t save te world (Spiccioli: perché il business non salverà il mondo). «Perché i super-ricchi dovrebbero decidere come le scuole vanno riformate o i vaccini sviluppati?», si chiede. «Non si possono risolvere problemi radicati quali povertà, diseguaglianza e violenza come si scrive un software o s’installa una linea di produzione per auto». E incalza: «Se non se ne renderanno conto, i filantrocapitalisti avranno un impatto trascurabile e la loro popolarità svanirà in cinque o dieci anni».
Ralph Nader, il militante americano per i diritti dei consumatori ripetutamente candidato alle presidenziali Usa, ha scritto un romanzo: Only the super-rich can save us (Solo i super-ricchi possono salvarci). È la storia di una pattuglia di 16 anziani miliardari che si batte contro gli interessi delle grandi multinazionali.
Prima dei ricchissimi, però, nel mondo della filantropia sono entrati in massa i divi di Hollywood. George Clooney si è impegnato in favore del Darfur. Sharon Stone, Liz Taylor e Tom Hanks continuano a impegnarsi contro l’Aids. Charlize Theron e Michael Douglas sono messaggeri di pace delle Nazioni Unite, Nicole Kidman lavora con l’Unicef, ecc.
Matt Damon organizza tornei di poker per raccogliere fondi da devolvere a piani di irrigazione in Africa.
Angelina Jolie e Brad Pitt vendettero per 14 milioni di dollari i diritti sulle prime immagini dei figli Vivienne e Knox. In pochi mesi 8 di quei milioni se ne erano andati in aiuti ai campi profughi in Pakistan, alla cura della malaria nel Mali, alla lotta alla denutrizione infantile in Cambogia e anche al «Make it Right», un progetto con il quale Pitt ha costruito 100 case «verdi» in uno dei quartieri di New Orleans devastati dall’urgano Katrina.
Secondo il Chronicle of Philanthropy la maggiore donazione di un privato nel 2010 è costituita finora dai 200 milioni di dollari regalati da un anonimo alla Baylor University di Waco, nel Texas.
Linda Polman, giornalista olandese autrice de L’industria della solidarietà: «È un sistema che muove miliardi e che conta un numero esorbitante di organizzazioni in competizione tra loro per spartirsi quel denaro: circa 37mila secondo le indicazioni dell’Onu. I soldi sono veramente tanti, se si mettessero insieme, le organizzazioni umanitarie formerebbero il Pil della quinta potenza mondiale!».
L’ondata di filantropia americana in Italia non ha attecchito. L’Istituto italiano delle donazioni ha calcolato che nel 2009 la quota di organizzazioni senza scopo di lucro che hanno registrato un incremento nella raccolta dei fondi è rimasta pressoché identica (scendendo di un solo punto, dal 43 al 42%), mentre il 22% (rispetto al 34% dell’anno prima) evidenzia una situazione stabile. Il 36% denuncia invece un calo dei fondi raccolti dai privati, mentre l’anno precedente solo il 23% aveva dovuto affrontare questo problema. Il 17% delle organizzazioni ha dovuto fare i conti con una contrazione delle entrate superiore al 15% rispetto al 2008.
Secondo i dati di Eurobarometro nell’ultimo anno il 44% della popolazione ha effettuato una donazione. Uno su tre (il 33%) lo ha fatto più di una volta. A donare sono più le donne che gli uomini (47% contro 41%), mentre «c’è una maggiore propensione alla donazione nelle regioni del Nord Italia, in particolare nel Nord Est». La maggior parte delle donazioni va alla ricerca medica e all’aiuto ai malati (62% delle offerte). Seguono quelle per le calamità naturali in Italia (46%) o all’estero (33%). Diminuiscono, anche se di poco, gli aiuti contro la fame nel mondo e ai paesi poveri, le adozioni a distanza e le donazioni alle vittime di guerra e del terrorismo.
Don Colmegna, presidente della Caritas milanese, ha detto che Alessandro Profumo è un grande benefattore dell’ente diocesano. Dei 40 milioni che l’ex amministratore delegato di UniCredit incasserà come buonuscita da Piazza Cordusio, 2 andranno alla Caritas.
L’ex ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ha promesso che venderà la casa dello scandalo e darà in beneficenza i soldi che altri (a suo dire senza che il ministro lo sapesse) avevano versato per l’acquisto.
Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, invitò l’ex presidente di Generali, Antoine Bernheim, a donare a una fondazione almeno parte della sua pensione. Lui rispose con una lettera: “Il Suo suggerimento di donare una parte della mia pensione a una fondazione è significativo soprattutto perché sottolinea quanto di moda sia diventato fare pubblicità alle proprie opere di solidarietà, per assicurarsi un certo credito di reputazione agli occhi della gente. Dal momento che non sono mai stato un seguace delle mode, rimango dell’opinione che ogni individuo abbastanza fortunato da potersi impegnare in attività filantropiche non dovrebbe mai manipolare il privilegio di aiutare gli altri – dovunque essi siano – per guadagnarsi un po’ di approvazione. Mi perdonerà dunque se anche in questa occasione non abdico a questo principio e declino il Suo gentile invito a lustrare la mia immagine davanti ai Suoi lettori”.
Le donazioni in Italia non sono tassate se i soldi sono concessi a: stato, regioni, comuni, province ed enti pubblici; associazioni, fondazioni, enti pubblici che hanno come scopo l’assistenza, lo studio, la ricerca scientifica, l’educazione, l’istruzione, o altre finalità di pubblica utilità, onlus, fondazioni bancarie, partiti, movimenti politici. Non si tassano nemmeno le erogazioni in denaro e le cessioni gratuite di beni effettuate in favore delle popolazioni colpite da eventi di calamità pubbliche o da altri eventi simili e straordinari anche se avvenuti in altri stati. La donazione si può ridurre dai redditi fino a un massimo del 10% del reddito e con un tetto a 70 mila euro. Per essere dedotto il pagamento deve avvenire tramite assegno, bonifico bancario o bollettino postale.