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 2010  ottobre 29 Venerdì calendario

SCARPE DA VORSA, PER VOCE ARANCIO


Già nelle prime edizioni delle Olimpiadi greche, gli atleti potevano competere muniti di sandali costruiti dagli artigiani dell’epoca. Grandi campioni, tuttavia, vinsero gare importanti come il Dolichos correndo per 4-5 chilometri a piedi nudi.

Un tempo gli indiani, per proteggere la pianta del piede, avevano l’abitudine di spalmarlo col lattice raccolto sugli alberi da caucciù.

Gli inglesi, nel 1850, furono i primi a costruire una calzatura sportiva con suola di gomma e tomaia in tela. La scarpa fu chiamata “Plimsoll” perché sui fianchi aveva una striscia di gomma bianca che ricordava la linea di galleggiamento disegnata sulle fiancate delle navi (ideata da Samuel Plimsoll). Una volta esportata negli Stati Uniti, la scarpa da ginnastica fu ribattezzata “sneaker”.

«Nate a fine Ottocento come scarpe da lavoro e poi adottate dal mondo dello sport, le scarpe da ginnastica sono presto diventate il simbolo dei giovani ribelli, quelli belli e maledetti alla James Dean, che già negli anni ’50 indossava le All Star Converse. Le stesse con cui poi hanno camminato gli anticonformisti che fino agli anni ’80 si rifacevano alla cultura punk-rock. Un simbolo di ribellione – e di emancipazione – che presto diventa fenomeno di massa. Ma anche fenomeno di moda chic, e un po’ snob. Se il primo a sdoganare le scarpe da ginnastica è stato Armani, oggi Lapo Elkann le indossa per dare un tocco glam al suo stile che tanto ricorda quello dell’Avvocato. Le portano star di Hollywood come Charlize Theron e Scarlett Johansson, che ha addirittura disegnato un modello per Reebok. E piacciono anche a chi ha superato i quaranta (come Piero Chiambretti, che le mette anche sotto lo smoking)» (Pamela Dell’Orto sul Giornale).

Negli anni ’80 in America circa 30 milioni di persone praticavano regolarmente il jogging. Visti i numerosi infortuni, diverse aziende iniziarono ad aprire centri di ricerca per sviluppare scarpe migliori nei materiali e nella tecnologia.

Il primo sistema evoluto applicato alle scarpe da ginnastica fu “Air” della Nike, creato nel 1978 integrando, tra tomaia e suola, cuscinetti di uretano contenenti una miscela di gas pressurizzato ad alta densità.

Oggi la Nike vende circa 100 milioni di paia di scarpe all’anno per un fatturato di oltre 10 miliardi di dollari. Fondata nel 1964 da Philip Knight, già studente e podista dell’università dell’Oregon, ha 26 mila dipendenti e controlla il 34% del mercato mondiale.

Il business della calzatura da jogging vale 17 miliardi di dollari l’anno.

Ogni anno gli italiani comprano circa 23 milioni di paia di scarpe da ginnastica, sborsando più di 1.000 milioni di euro.

«Nei negozi sportivi ormai la zona-scarpe si è dilatata, con sezioni specializzate a seconda delle discipline sportive (mai usare una scarpa da tennis per andare a correre!), dei percorsi (un velocista e un maratoneta hanno esigenze diverse), perfino della conformazione anatomica: il cliente è invitato a poggiare i piedi su scanner elettronici che misurano l’inclinazione su cui poggia il peso del corpo.
 In questo business i big come Nike, Adidas, o la giapponese Asics, da anni hanno investito su suole sempre più spesse, morbide, molleggiate, hi-tech. Cuscinetti d’aria intrappolati nel caucciù vengono venduti a prezzo d’oro, come altrettante protezioni contro il logorìo delle giunture (anca, ginocchio, caviglia, vertebre) che insidia il corridore di fondo. Si aggiungono microchip elettronici e ogni sorta di gadget che promette performance superiori e vita lunga agli arti inferiori» (Federico Rampini su Repubblica).

Nel 2005 Adidas ha lanciato “1”, la prima scarpa intelligente: un piccolo computer all’interno della suola aziona un motore capace di comprimere o decomprimere la suola stessa ogni quattro passi, verificando ogni volta le mutate condizioni del terreno. Un sensore nella suola realizza 20.000 letture dell’ambiente sottostante per ogni secondo di tempo: il cervello elettronico elabora 10.000 algoritmi, azionando il motore che modifica la configurazione della scarpa. A disposizione dell’utente un pannellino di controllo, a livello del tacco, con cinque diodi luminosi che mostrano il livello di ammortizzamento raggiunto dalla suola. Si tratta di un congegno piccolissimo che non va a compromettere la leggerezza della scarpa: con i suoi 40 grammi, infatti, il computerino da passeggio rappresenta solo il 10 per cento dell’intero peso (400 grammi). Prezzo della “1”: 250 euro.

A insidiare il fatturato dei grandi marchi che producono scarpe sempre più tecnologiche c’è un’azienda italiana, la Vibram, che ha inventato la “scarpa che non c’è”, una membrana sottile che avvolge il piede, con le dita separate come in un guanto, e lo lascia quasi nudo nel contatto con il terreno. Il New York Times nel 2009 ha scoperto il boom di questa non-scarpa e ne ha fatto un caso, con foto dell’“oggetto” in prima pagina. Proprio in America, infatti, nel popolo del jogging questo nuovo modo di correre a piedi quasi nudi ha un successo notevole e il numero degli adepti cresce a vista d’occhio.


La Vibram con la linea Five Fingers (Cinque dita) ha visto le sue vendite triplicare ogni anno, dopo il lancio nel 2006.

Daniel Lieberman, docente di Biologia evolutiva a Harvard, è uno degli scienziati che sostiene la “scarpa invisibile”. Dopo aver esaminato un’impressionante mole di dati per ricostruire la storia della corsa nell’evoluzione della specie umana, riguardo agli ultimi decenni ha concluso: «Non esistono prove che le scarpe sportive abbiano migliorato la condizione di chi corre». Dagli anni ’70 in poi, nel periodo che ha visto un’escalation di innovazioni tecnologiche con l’uso di materiali sempre più sofisticati, il tasso di infortuni e ferite nel popolo del jogging non si è ridotto. Anzi, alcuni incidenti al ginocchio e al tendine d’Achille sono perfino aumentati. E questo nonostante l’adozione sempre più universale di scarpe che promettono di «assorbire l’impatto» con l’asfalto.
È arrivato alla stessa conclusione il medico Craig Richards della facoltà di Medicina di Newcastle in Australia: «Non esiste una sola indagine clinica che abbia dimostrato i benefici delle scarpe molleggiate o protettive, nel prevenire i danni fisici o nel migliorare i risultati sportivi».

Il maratoneta etiope Abebe Bikila vinse alle Olimpiadi di Roma del 1960 correndo a piedi nudi.


Secondo Galahad Clark, fondatore a Londra di Terra Plana che è un altro produttore di “scarpe invisibili”, le superscarpe tecnologiche vendute dai colossi dell’abbigliamento sportivo «sono come delle bare, imprigionano il piede e gli impediscono di svolgere le sue funzioni essenziali». È in totale disaccordo Lewis Maharam, consulente medico dei New York Road Runners (il club dei maratoneti newyorchesi): «Correre a piedi nudi va bene per chi ha una costituzione bio-meccanica perfetta, per il restante 95% della popolazione è una ricetta sicura per finire all’ospedale».

Un piede è formato da 26 ossa, 19 muscoli, 33 articolazioni, 150 tra legamenti e tendini e centinaia di migliaia di ghiandole sudoripare. Il carico di chili di pressione che deve sopportare è notevole: una corsa di 7 chilometri fatta da un individuo di 70 chili produce su ogni piede una pressione complessiva pari a 900 tonnellate.

Secondo scienziati dell’Università di Dundee fare jogging con scarpe da corsa costose e griffate è un inutile spreco di denaro. I ricercatori scozzesi hanno testato su 43 maschi adulti le calzature sportive di tre famosi marchi comprese in altrettante fasce di prezzo (bassa, media e alta), arrivando alla conclusione che quelle che costano meno di tutte (intorno alle 40 sterline – circa 57 euro) offrono una protezione migliore dagli infortuni rispetto ai modelli più cari (che arrivano anche a 75 sterline – 107 euro) e sono persino più comode. Dopo aver nascosto il logo per non condizionare l’esperimento, ogni scarpa è stata dotata di uno speciale sottopiede elettronico che misurava la pressione all’altezza del tallone, a metà piede e sull’alluce durante la corsa su una pedana mobile, e i risultati della ricerca sono poi stati pubblicati sul “British Journal of Sports Medicine”. «In base alle scarpe studiate – ha spiegato il professor Rami Abboud, a capo dell’equipe di Dundee – sembrerebbe che la prestazione, in termini di protezione, non sia legata al costo. Infatti, la pressione plantare era complessivamente più bassa nei modelli a basso costo e in quelli medi e anche se si trattava di una piccola differenza, questa potrebbe però diventare significativa nel tempo. Da qui, la considerazione che le sneakers meno costose non solo garantiscano la stessa protezione dagli impatti rispetto a quelle più care, ma anche che in alcuni casi possano pure proteggere di più». Abboud, inoltre, ha rivelato di aver svolto esperimenti simili a questo su scarpe ancora più costose - dalle 150 sterline (215 euro) in su – e anche in questo caso i risultati hanno confermato come questo genere di calzature non sia assolutamente la scelta migliore per il piede. «C’è l’erronea convinzione che se si paga di più, si ottiene di più in termini di prestazioni e risultati, ma questa idea è davvero molto discutibile. Fra l’altro, le scarpe da ginnastica, tutte le scarpe da ginnastica, sono fatte nelle stesse fabbriche in Cina e usando gli stessi materiali».

«Una volta, a Parigi, sdraiato nella mia stanza d’albergo, per puro caso ho letto sull’International Herald Tribune un articolo dedicato alle maratone internazionali, corredato di interviste a concorrenti famosi. Una delle domande era: “Che genere di mantra recita mentalmente per farsi coraggio durante la corsa?” Interessante questione. Era straordinario su quante cose riflettessero tutte quelle persone correndo per 42,195 chilometri. Già solo questa scoperta mostra quanto sia ardua una competizione sportiva come la maratona. Se non ti reciti di continuo un mantra, non ce la farai mai. Tra i concorrenti ce n’era uno che per tutta la corsa, dall’inizio alla fine, rimuginava su un motto appreso dal fratello (un maratoneta anche lui): Pain is inevitable. Suffering is optional. Quello era il suo mantra. Il dolore non si può evitare, ma la sofferenza è opzionale. [...] Credo che queste parole riassumano alla perfezione la natura di quell’evento sportivo che si chiama maratona» (Murakami Haruki, L’arte di correre, Einaudi).