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 2010  ottobre 29 Venerdì calendario

L’eroe di Hotel Rwanda accusato di terrorismo - C’è un uomo, Paul Rusesabagina, per cui il genocidio ruandese, questa africana traversata del Male, sembra destinato a non finire mai

L’eroe di Hotel Rwanda accusato di terrorismo - C’è un uomo, Paul Rusesabagina, per cui il genocidio ruandese, questa africana traversata del Male, sembra destinato a non finire mai. Sedici anni sono passati da quei cento giorni di follia sanguinaria, ottocentomila morti; sedici anniversari sono stati già celebrati, alcuni colpevoli sono stati condannati, altri ancora sono braccati nel mondo, burattinai o semplici gregari del machete. Eroe e assassino che sia, Paul Rusesabagina non riuscirà mai a togliersi di dosso quelle gocce di sangue, quel puzzo di morte. È la sua gloria, o forse la sua espiazione. Diciamolo chiaramente: noi vorremmo che restasse lo Schindler africano, un semplice impiegato della Sabena incaricato di gestire «l’Albergo delle mille colline» nel centro di Kigali, che con un umile arsenale di astuzie, di bugie, di santa corruzione salvò 1200 rifugiato tutsi, i «nemici», dalla lama degli squadroni della morte. L’orrore del Ruanda di allora è tutto negli occhi: occhi che fanno ancora paura, che servivano a rintracciare la preda per sbranarla, e occhi già spenti, rassegnati, delle vittime. E poi c’era lui, con il suo sorriso modesto, un uomo comune, non un Rambo o un martire, la prova che esiste la tentazione del Bene, a impartirci la lezione dell’amore nascosto, della fraternità che non conosciamo, della bellezza che fiorisce nell’oscurità. La leggenda vuole che scoprì, mentre cercava clienti per il suo taxi nelle strade di Bruxelles dove aveva cercato rifugio, di essere diventato l’eroe di un film, Hotel Rwanda, che ha fatto versare lacrime a tutto il mondo angosciato dai rimorsi. Per questo è stato decorato alla Casa Bianca e la sua autobiografia Un uomo qualunque è entrata di diritto nella Pleiade della letteratura umanista. Ma c’è qualcuno che, invece, lo copre di insulti e di imprecazioni, giura che è un impostore, complice degli assassini, che si faceva pagare oscenamente la sua pietà e che finanziava i lanzichenecchi del genocidio, ora diventati ribelli e banditi. Per il governo (tutsi) di Kigali quell’eroismo sarebbe subdolamente retrospettivo, una falsa icona costruita con la complicità del cinema americano. Da anni si lavora a questo ritratto capovolto. Raccogliendo implacabili (ma quanto spontanee?) testimonianze di superstiti e di dipendenti dell’albergo: secondo i quali questo samaritano senza paura chiedeva 800 dollari a persona per azionare la Carità, per di più inutile perché la salvezza dei rifugiati dipese dalla presenza di funzionari dall’Onu e di stranieri nell’albergo, testimoni troppo pericolosi. Anche per quei sanguinari senza scrupoli. Ora le autorità ruandesi sono passate ad accuse più gravi; il procuratore generale Martin Ngoga ha annunciato che dispone di «prove solide» per accusarlo di «terrorismo». Avrebbe infatti raccolto denaro per i ribelli delle Forze democratiche di liberazione del Ruanda. In realtà sono le milizie hutu che compirono i massacri del ’94, fuggite nelle foreste del Congo, dove con il brigantaggio e lo sfruttamento delle miniere conducono una guerriglia feroce contro Kigali. Nel frattempo Rusesabagina ha trovato rifugio negli Usa ed è diventato uno dei più implacabili oppositori del padrone del Ruanda, il presidente Paul Kagame, a cui rimprovera di essere un despota ipocritamente democratico, di violare i diritti umani, di truccare le elezioni con la paura: «Non ho finanziato i terroristi. In realtà Kagame ha ormai messo a tacere tutti gli oppositori, in carcere o uccisi. Io sono l’unico rimasto». C’è un elemento che sembra dargli ragione: secondo l’accusa la sua complice sarebbe Victoire Ingabire, già in carcere, anche lei avvilita con la qualifica di «terrorista». È l’oppositrice (hutu) che è stata ribattezzata la «Mandela del Ruanda». Ancora una volta un personaggio a due facce: siamo davvero nudi di fronte alla verità. Bisogna, allora, riflettere su quello che è il Ruanda di oggi. Uno Stato-fortezza (i tutsi sono ribattezzati «i prussiani dell’Africa»), controllato ossessivamente, senza smagliature, dove solo l’efficienza non è africana, con pericolose smanie di diventare la potenza che controlla la zona dei Grandi laghi. Kagame è stato rieletto ad agosto con il 93 per cento dei voti; la gente preferisce tacere, soddisfatta dei passi avanti economici, dell’ordine e della pulizia. Blair e Clinton lo salutano come «un amico» e «un visionario» e la Banca mondiale lo cita a modello. Questo regime porta un culto sommario e truce alla memoria dell’olocausto subito dai tutsi, che brandeggia di fronte a ogni critica dell’Occidente, rinfacciandogli la colpa di aver taciuto. Un radicalismo di vittime che non può accettare la presenza tra gli Altri, nel Male, di alcuna eccezione virtuosa, di alcuna macchia di umana carità. Cosa conta allora la verità su quello che è stato davvero il piccolo impiegato dell’«Albergo delle mille colline»?