Francesco La Licata, La Stampa 29/10/2010, pagina 1, 29 ottobre 2010
Il bandito Giuliano - La morte oscura del bandito Salvatore Giuliano è la madre di tutti i misteri della recente storia del nostro Paese
Il bandito Giuliano - La morte oscura del bandito Salvatore Giuliano è la madre di tutti i misteri della recente storia del nostro Paese. Ma è anche l’originaria cellula melmosa che ha generato un cancro indistruttibile. Quel cancro che, ancora oggi, rende opaco persino il presente compromesso dalle antiche zone d’ombra mai chiarite. In quel cortile di via Mannone, a Castelvetrano, davanti all’abitazione di un anonimo «avvocaticchio», che evidentemente tanto anonimo non doveva essere, la mattina del 5 luglio del 1950 si decretava la fine (vera o falsa che sia lo diranno le perizie) del mito di Salvatore Giuliano, il “condottiero” autonomista manovarato dalla mafia latifondista, dai servizi segreti, dalle forze della destra e della Dc più filoamericana e vaticanista. Una trappola perfetta per «Turiddu», ormai fuori di testa per la facilità con cui riusciva e relazionarsi con «sbirri», carabinieri, spioni e politicanti che gli avevano fatto credere di poter dettare condizioni persino al presidente Harry Truman, al quale aveva scritto una famosa lettera in cui lo trattava da pari a pari. Nella migliore tradizione spionistica, Giuliano fu ucciso dal suo migliore amico e parente, quel Gaspare Pisciotta che era stato suo braccio destro e consigliere nella lunga guerra tra il bandito e le autorità siciliane e nazionali. Ma Pisciotta, «Asparinu», fu solo strumento dei carabinieri e, forse, anche di altri dal volto coperto e maestri del doppiogioco. Esiste una testimonianza lasciata dal maresciallo Giovanni Lo Bianco su quella mattinata a Castelvetrano ed è un racconto che potrebbe essere benissimo adattato anche a storie più recenti verificatesi dopo il 1950. L’omicidio di «Turiddu» - praticamente avvenuto sotto lo sguardo benevolo dei carabinieri del Gruppo repressione banditismo, ma monitorato anche da osservatori dell’Alto commissariato (non ci siamo inventati nulla negli anni seguenti!) e colleghi rivali dei militari - fu un capolavoro di operazione sotto copertura. Pisciotta - così la raccontava il maresciallo Lo Bianco - «arruolato» dal colonnello Luca e convinto a collaborare alla cattura di Giuliano che, in corso d’opera e per imperscrutabili complicazioni, si trasforma in omicidio, anche per l’inadeguatezza dell’ufficiale che gestiva «Asparinu». Pisciotta spara a Turiddu sorpreso nel sonno e sfugge alla vista del suo «controllore» e dello stesso colonnello Luca. Verrà ripreso da Lo Bianco in casa della madre, a Montelepre, mentre a Castelvetrano andava in scena un mai avvenuto conflitto a fuoco coi carabinieri. Una sceneggiata a uso e consumo dei media, che - evidentemente - anche allora avevano la loro importanza. I depistaggi successivi - capaci di condizionare la verità processuale, svanita come neve al sole nei diversi gradi di giudizio - sono un campionario di doppiezza che sembra soltanto anticipare un «sistema» mai tramontato. Un metodo da cui traspare una certa abitudine all’inquinamento, all’occultamento della verità, in nome della ragion di Stato eretta a tutela dell’«interesse superiore» non sempre, poi, ben identificato. Anzi un interesse superiore spesso macchiato da gelosie tra Corpi dello Stato e da ansia da carriera di uomini potenti. Non c’è molto da scavare nella memoria per trovare avvenimenti più prossimi ma egualmente rimasti nel limbo della verità mancata o della doppia e tripla verità, secondo una prassi molto sicula. Il «suicidio» di Michele Sindona, ucciso in carcere dal veleno nel caffè, ha finito per usurpare la fama del cosiddetto «caffè Pisciotta». Già, anche «Asparino» concluse la sua esistenza terrena dopo un espresso prontamente servitogli nel momento in cui minacciava di pubblicare il suo memoriale. Il memoriale di «Asparinu», la lista dei 500 politici, massoni e «risparmiatori fidati» in possesso di Sindona: due moventi lontani per una simile sceneggiatura. E poi i depistaggi nelle indagini per le stragi mafiose del ’92 e del ’93. Roba contemporanea che sembra presa da quel passato. Prendiamo la cattura di Totò Riina, secondo Massimo Ciancimino favorita dall’aiuto di Bernardo Provenzano ma secondo i carabinieri del Ros frutto solo di indagini e ricerche. Quante verità per quell’operazione: non ultima l’apporto del pentito Balduccio Di Maggio, sponsorizzato da un altro «ramo» dell’Arma avverso al Ros. Il capitano Ultimo ha sempre negato che Di Maggio sia stato utile alla cattura, ma lo Stato ha pagato al pentito persino una parte della taglia. Tranne poi rivedere Di Maggio accusatore di Andreotti che bacia Riina e platealmente smentito dal Tribunale. Ne riparleremo tra 60 anni, come per Giuliano?