Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 29/10/2010, 29 ottobre 2010
LA LINGUA E I DIALETTI COME SCRIVONO GLI ITALIANI
Franco Brevini, in un saggio di recente pubblicazione, sostiene che la nostra letteratura non sarebbe stata in grado di raccontare l’Italia e di esprimere sentimenti ed emozioni, perché utilizzò e utilizza il toscano — che sarebbe poi l’italiano, — definito lingua «morta e sclerotica», invece dei dialetti, definiti lingue «vive». Sono sconcertato. In primo luogo perché l’uso dei dialetti è assolutamente improponibile per consentire una comunicazione tra gli abitanti della penisola: si determinerebbe un’autentica Torre di Babele se si pensa, per fare un esempio, che alle Cinque Terre esistono un dialetto monterossino e uno vernazzese. L’italiano è sempre stato utilizzato nelle comunicazioni pratiche e negli atti ufficiali. Esempio: il Porta, quando scriveva ai familiari, usava la nostra lingua e non il dialetto; gli atti del processo agli untori della peste del 1630 sono redatti in latino e in italiano. Inoltre, come può un professore universitario, che insegna letteratura italiana, sostenere che la nostra lingua non è in grado di esprimere emozioni e sentimenti? Brevini dovrebbe conoscere Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Manzoni, tanto per citare qualche nome.
Riccardo Airoldi
riccardo.airoldi@fastwebnet.it
Caro Airoldi, quello di Brevini è uno studio storico e non credo che gli possano essere attribuite le intenzioni suggerite dalla sua lettera. Per quanto mi riguarda, non ho le competenze dei filologi e degli storici della lingua, ma sono sempre stato colpito da due constatazioni. In primo luogo l’Italia aveva, al momento dell’Unità, una lingua nazionale parlata dal 2,5% della popolazione e un tasso di analfabetismo particolarmente elevato, apparentemente paradossale in un Paese che poteva vantare una delle più nobili e conosciute culture letterarie dell’Occidente. In secondo luogo, l’Italia ha avuto sino agli ultimi decenni una vasta letteratura dialettale. Penso al teatro di Cesco Baseggio, Gilberto Govi, Angelo Musco, Eduardo De Filippo. Penso alle prime poesie di Pier Paolo Pasolini. Penso alla antologia di Mario dell’Arco e Pasolini («Poesia dialettale del Novecento») che apparve presso Guanda nel 1952 e più recentemente (1995) presso Einaudi. Non credo che esista un altro Paese europeo in cui tanti diversi dialetti abbiano avuto, sino alla seconda metà del secolo scorso, una fioritura letteraria altrettanto abbondante e pregevole. Abbiamo uno straordinario capitale, ma nascosto, clandestino, ignoto alla stragrande maggioranza dei lettori e alle maggiori giurie letterarie del mondo.
A fronte di questa ricchezza «sepolta», l’Italia ha un’altra caratteristica. La sua letteratura nazionale, la sua letteratura politica e il suo teatro sono scritti, sino agli inizi del Novecento, in una lingua molto più aulica, colta e «costruita» di quella usata nei loro Paesi dagli scrittori francesi, inglesi, tedeschi e russi. È più facile leggere Walter Scott e Victor Hugo di Alessandro Manzoni, Stendhal e Gustave Flaubert di Ugo Foscolo e Niccolò Tommaseo, Emile Zola e Tolstoj di Giovanni Verga e Luigi Capuana, Chateaubriand e Alexis de Tocqueville di Vincenzo Gioberti e Carlo Cattaneo, Robert Louis Stevenson di Antonio Fogazzaro, George Bernard Shaw e Oscar Wilde di Giuseppe Giacosa e Luigi Pirandello. Si direbbe che ogni scrittore italiano stia utilizzando uno strumento prezioso, non interamente suo, da trattare con particolare riguardo, e stia traducendo da una lingua dell’infanzia e dell’adolescenza con cui ha maggiore familiarità. Anche lui, come Manzoni, deve continuamente «risciacquare i panni in Arno».
Credo che esista un rapporto, caro Airoldi, tra la vitalità dei dialetti e l’artificiosità della lingua nazionale in molte opere letterarie e scritti politici fra l’Ottocento e il Novecento. Forse è un tema di riflessione da inserire nei programmi per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità.
Sergio Romano