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 2010  ottobre 29 Venerdì calendario

UN NUOVO CARAVAGGIO. È SCIPIONE BORGHESE?


Solo volgendosi a ritroso, nella prospettiva del tempo, è possi­bile scorgere la forma geome­trica che ogni scoperta disegna die­tro sé. Sono passati nove anni da quando curai, per il Museo Diocesa­no di Pienza, una mostra dedicata a un singolo quadro di Giuseppe Ver­miglio, un pittore caravaggesco del­la prima ora. In quella occasione ri­cevetti in dono una piccola ma pre­ziosa collana di guide edite dall’ente Musei Senesi. Una di queste riguar­dava la Pinacoteca Crociani di Mon­tepulciano e in quel libretto era pubblicata una foto, quasi intera­mente buia, dalla quale tuttavia e­mergeva un viso che mi fece pensa­re ad un nome tuonante, un nome che imponeva una deglutizione ma anche un sottile senso di pudore. Il volto del giovane uomo ritratto, che affiorava come un masso levigato al centro di un lago scuro, mi sembra­va dipinto da Caravaggio. La piccola porzione di pittura, che nella foto­grafia si riduceva a tre centimetri per due, forse mi stava ingannando.

Non era la prima volta che immagi­ni, alterate dall’obiettivo e dalla stampa avevano creato suggestioni, svanite poi di fronte all’opera origi­nale. Così l’impressione rimase tale e venne accantonata in un cassetto, fino a quando, un paio di anni dopo, andai a far visita al museo della cit­tadina senese. L’esito non fu dei più felici, dato che la visione del quadro, posto in terzo ordine di altezza, nell’alta parete dedicata ai ri­tratti, non mi dava informa­zioni in più rispetto alla foto­grafia. Solo approfittando di un secondo viaggio turisti­co, qualche anno dopo, mi fu possibile ottenere una scala per vedere l’opera da vicino. Allora mi resi conto che la tela era in buona parte ridipinta e solo il volto di quell’uomo pasciuto e coi baffi arricciati all’insù si dimostrava inte­gro.

Quel giorno non era presente il direttore del Mu­seo, ma cosa mai a­vrei potuto dirgli: «Mi scusi quel dipinto mi sem­bra un Caravaggio, lo po­trebbe far restaurare?» Passarono così altri anni, anche perché ci sono argomenti della sto­ria che, proprio per la loro fama, per il clamore che li circonda, re­spingono invece di attrarre; giun­gono ad impastare, nel ricercatore, gli entusiasmi di una scoperta ad u­na forma di scetticismo insinuante, che nell’intento di disarmare gli ec­cessi del sentimento, finisce talvolta per soverchiare anche le ragioni del­l’occhio. Solo pochi mesi fa, com­mentando con l’amico storico Carlo Falciani le manifestazioni di questo anno caravaggesco e le strabiche at­tribuzioni che sono fiorite in­torno all’attesa mediatica, ho mostrato la foto del dipinto di Montepulciano. Tra le parole di quel giorno si fece strada il nome di Scipione Borghese quale possibile personaggio ritratto e il confronto che ne se­guì, col busto mar­moreo di Finelli,

In alto: la tela attribuita a Caravaggio come ritratto di Scipione Borghese (Museo Civico di Montepulciano); a lato: Giuliano Finelli, «Scipione Borghese» (New York, Metropolitan) conservato al Metropolitan di New York, fece il resto. Malgrado una dif­ferenza di età, misurabile in più di trent’anni, mettendo in sequenza i due volti è possibile rilevare notevoli corrispondenze fisiche ed espressi­ve rimaste coerenti con l’andare del tempo. Il volto pieno, la fronte ro­tonda e gli occhi stretti sono gli stes­si. Ovviamente cambiano i baffi e solo il labbro inferiore risulta più e­sposto e carnoso nel marmo, anche se va considerato il lascito dell’epo­ca barocca nella quale si tendeva ad esaltare la componente florida della fisicità. Scipione Caffarelli, nato nel 1576, assunse il cognome Borghese non appena lo zio Camillo (Paolo V) salì al soglio pontificio. Già i suoi studi di diritto erano stati finanziati dal fratello della madre che nel 1605, due mesi dopo essere divenu­to papa, lo nominò cardinale evitan­do ogni tappa ecclesiastica. La mia impressione era che la tela ritraesse Scipione intorno ai ventitré anni, tra il 1598 e il 1600, in un periodo cru­ciale in cui l’artista stava cambiando il passo del proprio stile. Il cardinal nepote sarà poi una delle figure cen­trali nella vita del Merisi, oltre a di­venire il collezionista d’arte più im­portante della sua epoca. Pochi giorni dopo aver raggiunto questa i­dentificazione ero di nuovo in terra senese, stavolta mi aspettava il di­rettore del museo Roberto Longi che, intuendo subito la situa­zione, di propria iniziativa ave­va chiamato la restauratrice di fiducia, Mary Lippi. Portata a terra la tela e osservata con un fascio di luce diretta fu possibi­le immaginare che sotto la pe­sante ridipintura si celasse un’opera diversa. A volte, quan­do i musei sono guidati da per­sone sensibili e prive di quel­l’atteggiamento sospettoso e o­stile che ormai è divenuto rego­la, si possono far muovere flui­damente le tappe istituzionali.

Così è stato possibile ottenere una verifica dell’intuizione e il restauro ne ha dato ragione, re­cuperando un fondale di pura atmosfera con una significativa ombra proiettata dalla figura.

Lo sperone levigato del volto, che emergeva come un colle dal muro della Pinacoteca Cro­ciani, era dunque la punta di un monte. È bastato rimuovere uno strato di pochi millimetri per farla tornare alla sua luce.

Forse quell’ombra sulla parete, che ai nostri occhi è la cifra più nitida del giovane Merisi, nel­l’Ottocento dava disturbo a chi la fece interrare. Questa se­quenza di fatti ha portato alla riscoperta di un’opera che di certo apre un nuovo squarcio sul campo della prima ritratti­stica caravaggesca.