Diego Gabutti, ItaliaOggi 29/10/2010, 29 ottobre 2010
NON SI PUO’ DERUBRICARE LA TIRANNIA A REATO
Per John Locke, filosofo inglese del seicento e padre del cosiddetto illuminismo critico, il tirannicidio era un «appello al cielo».
Chi aveva privato gli uomini della libertà, dominandoli con la violenza e la paura, non era soltanto un nemico, tra tanti, dell’umanità.
Era un nemico dello stesso ordine naturale e le sue colpe erano incomparabili con qualunque altra colpa.
Per questo confondere il tirannicidio con la pena di morte, che sono per lo più le tirannie a infliggere, talvolta anche coram populo, non aiuta a fare chiarezza né tanto meno a incivilire il mondo, come oggi si pretende.
È giusto battersi perché sia abolita la pena di morte. Ma che sia proprio l’impiccagione di Saddam Hussein nel 2006, oppure la condanna alla pena capitale del suo braccio destro Tariq Aziz quattro anni più tardi, la bandiera di questa battaglia, come se la messa a morte dei gangster fascisti iracheni, che hanno assassinato centinaia di migliaia di persone, e una lapidazione per adulterio da parte di qualche corte islamica o l’omicidio legalizzato d’un rapinatore nero e minorenne in Alabama fossero la stessa cosa, è semplicemente insensato.
Così si derubrica la tirannia a reato, quando invece è un attentato contro l’ordine del mondo; e la passione per la libertà, che legittima i governi civili e ordina secondo ragione la convivenza, si trasforma in un articolo del codice penale.
Non c’è modo, per i tiranni, di coprirla dopo averla fatta, benché ci provino, come hanno fatto Saddam e Tariq Aziz, e qualcuno talvolta li assecondi, come hanno fatto i loro simpatizzanti, almeno finché gli ha fatto comodo, in nome dell’antimperialismo e dell’odio irrazionale per la democrazia.
Non è per il capriccio d’un tribunale, come nel caso dell’autocrate iracheno e del suo compagno d’armi Tariq Aziz, e neppure per il calcolo d’un gruppo di partigiani stalinisti, com’è capitato a Benito Mussolini, che i tiranni finiscono sul patibolo.
È con la loro vita e con le loro opere che gli oppressori si preparano a quest’uscita di scena, quando non riescono fortunosamente a scamparla, suicidandosi come Hitler, oppure morendo anzitempo nel proprio letto, come Lenin e Stalin. Sono loro stessi, accumulando orrori e sconfinando dal dispotismo politico nell’orrore metafisico, ad appellarsi al cielo.
Una cosa, dunque, è giustiziare Saddam per l’enormità delle sue colpe. Un’altra, e incomparabile, mettere a morte un rapinatore di banche o un assassino.
A parte i radicali, che sono sempre stati contro la pena di morte, sono diventati improvvisamente degli abolizionisti, in fatto di pena capitale, anche quanti non ne hanno i galloni.
Gli stessi politici che qualche anno fa invocavano a gran voce una moratoria planetaria per la pena di morte (non per salvare la vita a qualche adultera in Afghanistan ma prendendo a pretesto l’impiccagione del raìs iracheno) avevano fondato la propria carriera, nei partiti che per settant’anni s0’erano iuspirati alla rivoluzione d’ottobre, manifestando aperta ammirazione per i tiranni.
Alcuni di loro continuano, imperterriti, a baciare la pantofola e a tessere le lodi di eri e propri assassini seeiali come Fidel Castro, che tuttora fonda il suo potere sul terrore poliziesco e, in particolare, sulla pena di morte.
Non si può esaltare il regime castrista, relativizzare le imprese dei kamikaze islamisti, raccontare favole sulla natura del socialismo sovietico buonanima, difendere le ragioni degli ayatollah iraniani, parteggiare per Hezbollah contro Israele e contemporaneamente esigere che venga soppressa, con un’ordinanza universale, la pena di morte in tutto il pianeta. Ciò a partire non dalla Libia o dalla Cina, dove i tiranni non esitano a liquidare con un colpo alla nuca tutti i loro nemici, ma dall’Iraq degli attentati e delle stragi, dov’è stato giustiziato un tiranno e un altro s’appresta a seguirlo.
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La direzione di ItaliaOggi, nel pubblicare questo articolo di Diego Gabutti come contributo al dibattito su un tema etico, ribadisce che è sempre contro la pena di morte, qualsiasi sia il motivo per la quale essa viene invocata ed inflitta.