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 2010  ottobre 28 Giovedì calendario

TERRONI, BURINI E POLENTONI IL FEDERALISMO DELL´INVETTIVA

Prima di affrontare il libro di Pietro Trifone, Storia linguistica dell´Italia disunita (il Mulino, pagg. 200, euro 20), è opportuno qualificarsi, ammettendo a viso aperto le proprie colpe. Eccomi dunque pronto a dichiararmi terrone, affetto da "napoletanità" e munito di relativo accento, malgrado ogni patetico sforzo per ripulirmene. Devo aggiungere che il libro mi ha divertito. Ci si accorge subito che si tratta d´un testo scritto "al contrario", prendendo spunto o pretesto da un classico, quella Storia linguistica dell´Italia unita con la quale nel 1963 Tullio De Mauro tracciò un solco negli studi sull´eloquio nazionale. E adesso, senza per nulla contestare quel pioniere, Trifone mostra le mille difficoltà che ostacolano, da noi, una definitiva unificazione del linguaggio.
Non c´è effettivamente stato, in Italia, villaggio o contrada che, da un secolo e mezzo a questa parte - ma, a rifletterci, da sempre - abbia evitato di opporre le sue preferenze verbali ai canoni della loquela ufficiale. Ha prevalso anche qui lo spirito di contraddizione tipico d´una compagine umana gelosa della propria indipendenza e meritevole della qualifica che, parafrasando Dante, le diede Pasolini: «il bel paese dove il No suona». Ecco dunque che la lingua ha offerto un suo rilevante contributo nell´alimentare i luoghi comuni da noi usati contro noi stessi. Dal Brennero a Lampedusa, è stato incessante lo scambio di epiteti ilari o intolleranti fra italiani.
S´è trattato, per cominciare, di appellativi bipartisan, con i quali, per paradosso, ciascuna fazione geografica accusa l´altra di italianità, cioè di essere formata da «italioti», di soffrire di vizi «italici» e di ragionare e comportarsi all´«italiana», impersonando in realtà i caratteri d´una stirpe affetta da una «sterile e deleteria faziosità». Ecco spuntare, più in là, gli appellativi geograficamente mirati: "terroni", "sudici" (cioè abitanti del Sud), "zappaterra", a volte "tamarri", "beduini" o addirittura "zulù", "bantù" e "mau mau". Salendo un po´ lungo la penisola, si materializza il "burino" e il "trucido" mentre si fa largo il toponimo "Sgurgola" - località bizzarramente intesa come patria di sempliciotti - in un tripudio di "matriciano", "norcino", "ciociaro" in senso spregiativo, e fra una ressa di epiteti con terminazione in "aro" che i romani si rivolgono fra loro, salvo a trovarseli poi addebitati a proprio disdoro dall´esterno: "tangentaro", "bidonaro", "pallonaro", "palazzinaro", "pataccaro", "parolacciaro", "cravattaro" (nel senso di strozzino) e perfino "parafangaro" - dalla condotta di quegli "avvocaticchi" che lucrano sui minimi sinistri stradali della clientela - o "santaro", cioè disegnatore di sacre immagini sul selciato. Metafore nella cui produzione eccellono quegli stessi romani che Trifone definisce «gli scafati abitanti dell´unico villaggio al mondo insignito del titolo di Città Eterna». Poco dopo la Capitale si colloca, nel settore, Napoli.
Non che i nordici sfigurino, i milanesi essendo terzi nella produzione di invettive etniche: solo che spesso trovano il lavoro denigratorio già in gran parte compiuto dalle sue stesse vittime, e si limitano a profittarne. Certo, sono stati loro a creare l´ormai globalizzato "terrone" con tutti i suoi derivati, da "terronizzare" a "terronistico". E sono discese dalle loro zone l´espressione "napoli" con l´iniziale minuscola in forma d´attributo («sei un napoli!»), il composto "mangiasapone" (dove affiora il sospetto d´un uso improprio di quella merce), oltre alla locuzione "bassa Italia": energiche invenzioni verbali non sufficientemente bilanciate da vocaboli di contrattacco quale "polentoni" e simili. Devo comunque fermarmi qui, con una dichiarazione di principio: non mi sento affatto scandalizzato per questo, patriotticamente parlando. Perché drammatizzare?
Sembra giusto, al contrario, dare risalto a qualche sberleffo che l´autore infligge all´esercizio, così poco italiano, dell´eticamente corretto: un supremo esempio di creatività parodistica è l´adozione, registrata appunto da Trifone, di «diversamente vivo» in luogo di morto. Sembra inoltre obbligatoria, scorrendo il libro, una breve sosta nel territorio di "Slangopedìa", cioè un accenno a quel gergo modaiolo in uso fra i giovani: vi troviamo "pariolino", abituale sinonimo di benestante-reazionario, accanto a "zecca", che è il suo equivalente di sinistra in un alone radical-chic. Sprofondando nella scala sociale, ci verrà incontro l´ultravernacolare "coatto". Ma ormai ci aggiriamo nell´inevitabile romanesco di certi film natalizi.
Viene spontaneo ricordare, a suggello di tutto questo, il personaggio creato da Diego Abatantuono - nato a Milano da padre pugliese - che dichiarava «i´ so´ milanese ciento per ciento». Dato che l´unità d´Italia non si può farla daccapo e d´un colpo, diciamo apertamente che va bene così, pur fra tanti arbitri umoristici e stereotipi etnici. Purché duri.