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 2010  ottobre 28 Giovedì calendario

IL PERU’ DEI PICCOLI SFIDA I GIGANTI DEL PETROLIO


Questa volta lo scenario è un fiu­me, non la foresta. Ma il pro­blema di fondo non cambia. Al­meno 5.000 indigeni amazzo­nici delle etnie shawi, achuar e awajun bloccano – da lunedì – il fiume Ma­rañón, nella regione di Loreto. La zona non è lontana dai territori che furono al centro degli scontri del giugno 2009, ai quali è collegato il processo per pre­sunta istigazione alla rivolta contro il missionario passionista italiano Mario Bartolini: la sentenza è stata rinviata.

Gli indigeni questa settimana hanno deciso di paralizzare l’unica via di co­municazione della zona – il Marañón – utilizzando piccole imbarcazioni e corde che impediscono il passaggio delle lance «che trasportano i prodotti di prima necessità e portano i cittadi­ni in altri luoghi», spiega Dennis Pa­shanase, portavoce degli indios in ri­volta. Protestano contro la compagnia petrolifera argentina Pluspetrol: la ac­cusano di averli ingannati, di aver pro­messo – in cambio dello sfruttamento degli idrocarburi dell’area – benefici che non sono mai arrivati. L’accusano anche di un recente incidente, in cui 300 barili di petrolio sono finiti nelle acque del fiume, inquinando la loro fonte di vita. «Si erano impegnati a dar­ci dei benefici, ad appoggiarci in setto­ri come l’educazione e la sanità. Inve­ce, alla fine, erano solo parole. E que­sto ha creato l’indignazione della po­polazione » denuncia Pashanase. La Pluspetrol rigetta le accuse. Nella zona sono arrivate alcune navi della Marina peruviana: nonostante le pressioni, gli indigeni non vogliono abbandonare la protesta. Come accadde a Yurimaguas nel 2009, anche questa volta gli indios manifestano contro il congelamento virtuale di una legge che obblighereb­be lo Stato a consultare i nativi quan­do una decisione politica ed economi­ca riguarda i loro territori.

È solo l’ennesimo conflitto che accen­de l’Amazzonia peruviana: uno dei ter­ritori più ricchi al mondo in biodiver­sità, ma anche un immenso bacino di risorse minerali, gas e oro nero. È qui che si gioca una dolorosa partita, che vede due Perù contrapposti: il Perù che reclama investimenti internazionali, accordi commerciali ed esportazioni (che teoricamente dovrebbero portare ricchezza per tutti), e il Perù che chie­de di rispettare la natura, la casa degli avi, i boschi, i corsi d’acqua, i diritti an­cestrali degli indios che vivono da sem­pre in queste terre. Il braccio di ferro fra due visioni di crescita distinte – pra­ticamente opposte – va avanti da anni, ormai. Miniere, compagnie petrolife­re, gasdotti: le polemiche si moltipli­cano.

I contrasti riguardano zone im­mensamente preziose dal punto di vi­sta ambientale, che i nativi, le Ong, di­verse organizzazioni internazionali e osservatori indipendenti vorrebbero proteggere da trivelle e inquinamento. Ma il governo di Alan Garcia è sosteni­tore di una ricetta differente: le espor­tazioni e gli investimenti di capitali stranieri dovrebbero portare vantaggi a tutti i peruviani.

La vicenda del Marañón ricorda le pro­teste dello scorso anno, alle quali è le­gata la storia di padre Bartolini. Nell’a­prile del 2009 gli indigeni dell’Amazo­nas iniziarono uno sciope­ro pacifico contro alcuni decreti legge collegati al Trattato di libero commer­cio fra il Paese sudamerica­no e gli Usa. Le norme – se­condo le comunità native – avrebbero violato i diritti territoriali degli abitanti della zona e avrebbero po­tuto limitare il loro accesso al bene più prezioso: l’ac­qua. Gli indios reclamava­no anche in quell’occasio­ne il dovere dello Stato ad interpellar­li. Il timore principale era una sorta di “privatizzazione” occulta di milioni di ettari di foresta amazzonica, sotto for­ma di concessioni. La Chiesa – attra­verso la voce dei nove vescovi delle re­gioni amazzoniche – invocò il dialogo: «Negli interventi che riguardano le ri­sorse naturali non devono predomi­nare interessi di gruppo che trascina­no irrazionalmente fonti di vita, dan­neggiando nazioni intere e la propria u­manità ». Per il governo, questi decreti avrebbero solo garantito sviluppo eco­nomico per tutto il Perù, anche per l’A­mazzonia.

Dopo diverse settimane di sciopero – con importanti vie di comunicazione completamente paralizzate – a Bagua intervenne in forze la polizia. La ten­sione degenerò in un bagno di sangue. Morirono 23 poliziotti e 10 indios. Pa­dre Bartolini è stato accusato successi­vamente di avere istigato le proteste nella zona, in particolare a causa di un’omelia (pronunciata durante una messa per le vittime di Bagua) in cui dichiarò: «Dobbiamo chiamare assas­sini coloro che uccidono per denaro». Il missionario di Roccafluvione negli anni Ottanta fu minacciato dal Movi­mento Rivoluzionario Tupac Amaru, ma non abbandonò mai Barranquita. La sua gente, ora, prega perché non venga espulso dal Perù.