Donato Masciandaro, il Sole 24 Ore 28/10/2010, 28 ottobre 2010
BLACK LIST MOVIMENTISTE IL PIL CALA L’OFFSHORE CRESCE
L’uscita delle nuove black list sui paradisi fiscali, come pure l’attivismo di Berna e Londra sul segreto bancario sembrano segnare una nuova fase nella lunga storia dei centri offshore, e in generale della competizione internazionale giocata sulle regole di finanza, fisco e società. Un passaggio che deve partire da un fatto: la crisi finanziaria sta cambiando la fisionomia dei centri offshore.
Partiamo dai dati, utilizzando come black list la mappa dei territori a rischio valida per il nostro paese (si veda Il Sole 24 Ore del 24 ottobre). Si tratta di 64 tra paesi e territori sovrani, che rappresentano il 28% del totale dei paesi (222) censiti nelle statistiche internazionali. Si va da paesi industrializzati - come Svizzera e Lussemburgo - a piccole isole e stati, alcune di recente balzate agli onori della cronaca, dall’Europa - come il Principato di Monaco o la Repubblica di S. Marino - ai Caraibi - come Antigua o St. Lucia.
La loro dimensione complessiva sembra relativamente piccola: insieme rappresentano il 4% del Pil mondiale. Ma il discorso cambia guardando il loro peso relativo in termini di depositi bancari: quasi il 30% del totale mondiale. Non meraviglia perciò che i centri offshore siano stati al centro dell’attenzione dei policy maker e dei media mondiali durante la crisi. La loro azione d’intermediazione finanziaria, caratterizzata da alta opacità, è stata ritenuta tra i fattori che hanno accentuato gli effetti dell’azione del cosiddetto sistema bancario ombra - e non solo - nel causare prima e aggravare poi l’instabilità sistemica.
Ma che cosa è accaduto ai centri offshore durante la crisi finanziaria? Proviamo ad analizzare qual è stata l’attività delle loro banche nel periodo che va dal gennaio 2007 al marzo 2010, avendo dati su 55 di questi paesi. Un indicatore interessante è l’andamento dei depositi - e in generale la raccolta - dall’estero. Se guardiamo la raccolta dall’estero delle banche dei paesi industrializzati, troviamo che durante la crisi l’attività bancaria si è ridotta in pressoché tutti i paesi: l’Italia ad esempio ha registrato una riduzione del 45%, Olanda e Belgio del 50%, la Spagna del 34%, il Regno Unito del 13%, gli Stati Uniti del 9%, Germania e Francia rispettivamente del 12 e del 3 per cento.
Per quel che riguarda invece i centri offshore, il panorama è diversificato. C’è un primo gruppo di 42 paesi, che battezziamo degli "Offshore Calanti", che ha registrato un calo sistematico della sua attività di raccolta sull’estero. Si registrano cadute di oltre il 50% per Andorra e Gibilterra; la Svizzera segnala un calo del 42%, come pure cadono le Bermuda (33%), le Isole del Canale (32%), Liechtenstein (21%) e Bahamas (18%); in calo anche Barbados (7%) e Cayman (5%). Più in generale, il dato nuovo è che la categoria degli "Offshore Calanti" sembra coincidere con quella degli "Offshore Tradizionali".
Se infatti consideriamo come "Offshore Tradizionali" i paesi così classificati dalla Banca dei regolamenti internazionale, scopriamo che sono quasi tutti "Offshore Calanti", tranne quattro eccezioni: le Samoa, Aruba, il Libano e Macao. Questi territori fanno infatti parte del secondo gruppo, composto da 22 paesi, che chiamiamo gli "Offshore Emergenti", caratterizzati invece da una crescita dell’attività bancaria di raccolta sull’estero. Le banche degli "Offshore Emergenti" mostrano un incremento dei volumi: si va da una crescita di ben 17 volte di Tuvalu e del 160% dell’Angola, a risultati solo un po’ meno rilevanti di Tonga (86%), Grenada (72%) e Isole Marshall (55%), come pure del Brunei (43%) e del Kenya (33%). Gli "Offshore Emergenti" vedono la comparsa di nuovi paesi e nuovi continenti, che scoprono l’arma della competizione regolamentare per incrementare le proprie attività bancarie e finanziarie. Inoltre i volumi degli "Offshore Emergenti" sembrano crescere al ridursi del loro Pil pro capite e del loro grado di partecipazione alle organizzazioni internazionali, mentre aumenta quanto più il paese ha una sovranità nazionale acerba. I dati sembrano cioè suggerire che gli "Offshore Emergenti" siano quelli in cui più pressante è l’obiettivo dello sviluppo economico e nel contempo siano relativamente indifferenti al rischio di sanzioni internazionali e utilizzino la capacità di imporre regole in modo strategico.
Dunque la mappa degli Offshore sembra in movimento: la competizione regolamentare vede attori inediti sul proscenio. E i vecchi non sono fermi: è di lunedì la notizia degli accordi siglato dalla Svizzera con il Regno Unito per scambiare le garanzie di riservatezza offerte dallo stato elvetico con risorse a favore di Sua Maestà Elisabetta. Un accordo simile sembra in dirittura d’arrivo anche con la Germania.
È uno scenario che l’Italia deve seguire con molta attenzione. Siamo un paese vulnerabile all’esportazione di capitali per ragioni di riservatezza, o peggio ancora di segretezza. Abbiamo rapporti sia con gli "Offshore Tradizionali" che con gli "Emergenti": a proposito di questi ultimi, va segnalato che di ben 12 su 22 non si hanno statistiche internazionali dei rapporti finanziari reciproci (lo stesso vale per 9 degli altri Offshore).
In un momento in cui le regolamentazioni internazionali mostrano tutte le loro debolezze - le black list internazionali sono di fatto vuote - e i singoli stati mostrano tutto il loro attivismo, rischiamo di fare la solita fine del vaso di coccio.