Pino Corrias, Vanity Fair n.43 3/11/2010, 3 novembre 2010
O LA PIANTI O TI FACCIAMO ZUMPA’ LA CAPA
Tra lampi, torrenti d’acqua e fango, strade franate, tombini esplosi, automobili alla deriva, donne e vecchi in salvo sotto ai ponti, sirene in lontananza, blackout elettrici e altri disastri, scendo in Calabria per
incontrare i giornalisti minacciati dai macellai della ’ndrangheta.
Sono una ventina, undici dall’inizio dell’anno. Sono giovani. Sono incazzati. E hanno tutti abbastanza coraggio da non farti mai vedere la paura che li tiene all’erta sulle cose anche quando bevono il caffè, quando ridono tra i neon e i posacenere di queste redazioni di frontiera, quando ti dicono: «Si vede che qui da noi anche le minacce fanno parte del mestiere».
In un Paese normale non dovrebbe essere così. Non si dovrebbe ricevere una tanica di benzina, con un biglietto di insulti come è successo a Lucio Musolino, 27 anni, cronista di Calabria Ora, dopo aver scritto che il presidente della Calabria Giuseppe Scopelliti ha partecipato a un pranzo elettorale dove secondo i carabinieri comparivano imprenditori indagati e boss della ’ndrangheta. E neppure una lettera con tre pallottole e la scritta: «Andare oltre significa la morte», come è accaduto a Giuseppe Baldessarro, 43 anni, narratore di mille inchieste per il Quotidiano della Calabria. O le telefonate minatorie arrivate a Pietro Comito, 31 anni, una moglie, un figlio piccolo, caposervizio a Vibo Valentia nella redazione di Calabria Ora, una voce in dialetto che gli dice: «Ti spariamo due colpi. Ti tagliamo la testa. Guardati le spalle».
Tutti colpevoli dello stesso reato: ficcare il naso dove non si deve, raccontare le inchieste dei magistrati, spiegare gli intrecci tra i capicosca e i politici locali. Non fare finta di niente se il porto di Gioa Tauro è infiltrato dalle famiglie mafiose della Piana che incassano un dollaro e mezzo su ognuno dei 27 milioni di container che in dieci anni sono passati da lì. Se gli appalti pubblici vengono tutti accerchiati dai clan che pretendono una tangente del 3 per cento, il controllo delle assunzioni, delle forniture di sabbia, di calcestruzzo, delle macchine movimento terra, come accade sui cantieri della eterna A3, la Salerno-Reggio Calabria. Se nella Locride – a San Luca, Bovalino, Platì – si decide il quando e il come delle spedizioni di cocaina che arrivano a tonnellate dalla Colombia, passando per i cartelli dei narcos messicani. E poi quelle stesse famiglie – quando non regolano i loro conti a colpi di kalashnikov a Duisburg, a Montréal o a Gioiosa Ionica – riciclano gli enormi guadagni investendo nelle medie aziende del Piemonte, nei centri commerciali della Brianza, nei casermoni e nei negozi di Milano.
Anche se cambiano i nomi, tutti i cronisti mi hanno raccontato la stessa storia: il muro di gomma che si alza quando cominci a seguire i processi, quando scrivi i nomi che pesano – quelli delle famiglie Strangio, dei Marmo, dei Mancuso – quando ricostruisci le storie che sgocciolano soldi e sangue – «chi te lo fa fare?», «non ti mettere nei guai», «pensa ai figli», «goditi il lavoro e il sole» – che può durare anni, cento inchieste, magari un po’ di querele e l’insofferenza dell’editore come è capitato a Calabria Ora dove è appena stato licenziato proprio Lucio Musolino e due mesi fa il direttore Paolo Pollichieni. Fino all’articolo che brucia davvero. Fino alla telefonata che arriva di notte. All’automobile incendiata. E alla vita che da quel momento cambia, anche se non come si aspettano i mafiosi.
Alessandro Bozzo ha i capelli lunghi, la faccia da ragazzo. Lavora da 13 anni alla redazione di Cosenza di Calabria Ora. Ha seguito l’ultima campagna elettorale di un tale Mario Oliverio, candidato alla Provincia per il Partito democratico, che nei comizi gridava: io i voti dei mafiosi non li voglio, viva la legalità. Vince, diventa presidente. Bel segnale. «Peccato», racconta Bozzo, «che un paio di settimane dopo nomini nel suo staff un certo Luigi Garofalo, implicato in inchieste sul voto di scambio. Ma come? Il primato della legalità che valeva prima delle elezioni non vale più dopo?». Bozzo lo scrive. Racconta di questo Garofalo, dell’inchiesta che lo riguarda, 300 voti comprati per 15 mila euro, dei silenzi di Oliverio che si rifiuta di commentarla. «La lettera di minacce l’ho trovata sulla tastiera del mio computer, diceva: o la pianti o ti facciamo zumpà la capa, ti facciamo saltare la testa».
È in quel momento che inizia la seconda vita. L’allerta dei carabinieri. I consigli dei magistrati. Le tensioni in famiglia. Una nuova attenzione ai percorsi, agli orari, alle facce. Magari un po’ di insonnia.
Racconta Baldessarro, veterano di minacce, memoria storica di organigrammi e di processi: «Loro si aspettano che tu smetti, che chini la testa. Ci ho pensato. Ma poi non potrei più guardarmi allo specchio. Non perché sono un eroe, o un arrogante. Ma perché questa è la mia terra, mentre loro la usurpano. È la mia libertà in gioco, contro la loro prepotenza».
I SEGUGI DI REGGIO
Neanche loro, gli ’ndranghetisti sono disposti a chinare la testa, hanno in mano il territorio, i soldi, il potere. Da gennaio a oggi hanno fatto esplodere un paio di bombe alla Procura generale di Reggio Calabria. Hanno manomesso due auto di magistrati nel garage della Procura. Hanno spedito proiettili. Hanno recapitato un bazooka, annunciato con una telefonata sprezzante: «C’è una sorpresa per il procuratore».
Il procuratore Giuseppe Pignatone non ha fatto una piega. È un fuoriclasse. Viene da Palermo, dove ha arrestato Bernardo Provenzano. Qui a Reggio in due anni di lavoro ha messo in piedi una squadra di segugi e di mastini. Il primo anno ha studiato la geografia delle cosche. Il secondo è entrato in azione: mille arresti da gennaio a oggi, decapitando l’ala militare. Un miliardo di beni confiscati alle famiglie. Clamorose incursioni in Lombardia, con 300 arresti a luglio. La cattura di dodici tra i trenta più pericolosi latitanti. Una nuova fotografia della regina in nero di tutte le mafie.
Spiega Pignatone: «Si è sempre pensato che la ’ndrangheta fosse formata da tante famiglie indipendenti l’una dall’altra. Invece stiamo scoprendo che le famiglie da tempo si sono federate. Che convergono in un vertice unificato. Che agiscono unitariamente in Calabria, in Italia, nel mondo».
Il salto di qualità, secondo il procuratore, è recente, risale agli anni stragisti di Cosa nostra, quel biennio 1992-1994 iniziato con il boato di Capaci. La ’ndrangheta rifiuta di partecipare all’attacco allo Stato. Approfitta dei vuoti che i siciliani si lasciano alle spalle, entrano in Sudamerica, scalano i vertici dei cartelli della droga. E quando Cosa nostra implode nella successiva stagione delle inchieste, degli arresti e dei pentiti, la ’ndrangheta offre uomini, offre logistica, offre copertura a tutti i traffici e denaro fresco per moltiplicarli.
«Con quei soldi», continua Pignatone, «ha cambiato pelle, struttura, potenza. Ha fatto enormi investimenti nel Nord Italia e nel mondo. Ha ampliato la sua penetrazione nella politica e nell’economia legale. In quella che noi chiamiamo l’area grigia e che davvero può avvelenare l’intera società».
Quel veleno è la vera emergenza perché intossica tutto quello che tocca. «Diffonde», dice Pignatone, «la metastasi delle connivenze, delle collusioni, dell’omertà». L’attacco ai giornalisti ne è un sintomo perché quel potere oscuro pretende il segreto e la paura. Pignatone: «L’epidemia di minacce nasce da qui: la libertà di stampa non è considerata una cosa normale in Calabria, ma un pericolo mortale».
SIAMO NELLE MANI DI DIO
A una cronista di Calabria Ora, Angela Corica, hanno sparato cinque colpi di pistola contro l’auto parcheggiata, nel paesino di Cinquefrondi. A Francesco Mobilio, del Quotidiano della Calabria, gli hanno mandato una busta piena di pallottole. A Ferdinando Piccolo, corrispondente da San Luca, una telefonata di minacce e tre pallottole. A Michele Inserra, del Quotidiano, una pallottola calibro dodici. Al blogger Antonino Monteleone, hanno bruciato l’auto. C’è un libro drammatico e avvincente (Avamposto - nella Calabria dei giornalisti infami, autori Roberta Mani e Roberto Rossi, Marsilio editore) che ha raccolto ventidue storie di minacce. La Federazione Nazionale della Stampa ha lanciato l’allarme. Roberto Natale, il presidente, parla «di emergenza democratica». I carabinieri di «avvisaglie pericolose». I magistrati di «una tensione crescente».
È una elettricità che percepisci dentro a queste redazioni sempre un po’ scassate, piene di ragazzi e ragazze che collaborano pagati 6,5 euro lordi a pezzo, quando va bene, con computer d’antica generazione, neon e plastiche da pronto soccorso, telefoni che non funzionano.
Racconta Pietro Comito che secondo il cosiddetto Indice di penetrazione mafiosa elaborato da Raffaele Rio di Eurispes «un abitante su due, nella provincia di Reggio, è contiguo o connivente alla ’ndrangheta. A Vibo uno su tre, a Catanzaro uno su quattro». Sono stime, ma spiegano il clima, raccontano il territorio, chiariscono quanto sia facile abituarsi al veleno, oppure rischiare la vita quando non si accetta di berlo.
Roma ha appena mandato una settantina di soldati della Brigata Aosta a fare un po’ di scenografia sui marciapiedi della Direzione Distrettuale Antimafia. I magistrati di Pignatone e la Squadra mobile hanno fatto di meglio: hanno arrestato al confine con la Slovenia l’affiliato al clan dei Lo Giudice, esperto in esplosivi, che avrebbe piazzato le bombe di gennaio e di agosto.
La guerra forse è a una svolta. Per la prima volta dopo dieci anni di impenetrabilità ci sono due pentiti di peso che stanno parlando. E quando Pignatone sorridendo ti dice: «Il futuro è nelle mani di Dio», vuol dire esattamente il contrario. Il futuro è nelle mani degli uomini e delle donne calabresi «che non si rassegnano». Come questi cronisti che tra il racconto dell’ultimo omicidio e la biografia di un certo assessore colluso, ti spiegano che «fanno il lavoro più bello del mondo» anche se vivono in una «terra bella e devastata». Dove la gente può essere terribile. «Ma quando è per bene sa anche essere meravigliosa». È per loro che si rimane.