Silvia Nucini, Vanity Fair n.43 3/11/2010, 3 novembre 2010
LUI CHE NON HA VISTO L’ORSO BIANCO
Penso Lory Del Santo e mi viene in mente un costume di paillettes e uno sguardo ammiccante dalla Tv accesa. Penso Lory Del Santo e mi viene in mente suo figlio caduto dal grattacielo. Penso Lory Del Santo e mi viene in mente che ha vinto l’Isola dei famosi, sta con uno che ha la metà dei suoi anni, suo figlio si vuole sposare e lei dice «non farlo», ma lo dice a un giornale.
Mi vengono in mente tante cose, ma poi entro in casa sua – una casa molto borghese e milanese: tappeti, argenti, legno scuro – e parlo con una donna dalla voce sottile e le parole scelte con cura e penso che non siamo mai quello che sembriamo.
Sul tavolino accanto a noi ci sono delle foto, a faccia in giù. Io so cosa sono e lei sa dove la faranno tornare. Ho timore a portarla lì, subito. E allora prima parliamo di adesso, del suo imminente ritorno in Tv, questa volta diverso. «È tutta la vita che guardo alla finestra. Ho sempre pensato di essere in grado di condurre un programma, ma nessuno, in trent’anni di Tv, me l’ha mai offerto, né io l’ho mai chiesto: non per timidezza, ma per umiltà. Questa volta il programma, che si chiama Missione: seduzione, l’ho scritto io, quasi per scherzo. Ero andata alla Endemol per firmare un contratto per la solita ospitata e gliel’ho lasciato lì. Mi hanno richiamato, hanno detto: è bello, vorremmo l’esclusiva».
Che l’ospitata è la sua specialità lo dice con fastidio?
«Ma no, affatto. Si chiama guest star, meglio questo che l’opinionista che, in certi programmi, serve solo a far litigare. Mi verrebbe facile: riesco a demolire un carrarmato in tre parole, ma lo considero un ruolo limitato e limitante».
Passa Rocco, il fidanzato con la metà dei suoi anni. Bello e vestito da bello. Va a fare colazione al bar di Dolce e Gabbana. Poco dopo passa anche Devin che è poco più piccolo di Rocco, ma è suo figlio. La saluta, brusco. Quasi a scusarsi, lei dice: «Devin è un uomo che non è gentile con me, ma con le sue ragazze è una specie di Principe Azzurro. Da me ottenere lo considera un diritto, con le altre donne cambia, è una persona che non conosco».
Gelosa?
«Mi fa piacere vedere che, se deve fare, si rimbocca le maniche. Però un po’ mi dispiace che non sia così anche con me».
Andate d’accordo?
«Abbastanza, anche se io non capisco questa cosa della giovinezza per cui devi esprimere ciò che senti sempre e subito, anche quando il buon senso e l’educazione imporrebbero una pausa, una riflessione. Non credo che rivelare se stessi sia sempre una cosa giusta».
Come vive Devin il fatto che lei parli di lui ai giornali o a lui attraverso i giornali?
«Se ne lamenta, ovviamente. Io ci ho riflettuto, però ho pensato che, se ciò che dico è vero, perché dovrei mettermi lo scotch sulla bocca? Corro il rischio di parlare, sapendo che è un rischio».
Questa dimensione così pubblica della vita non la disturba?
«No, perché il mio vero privato rimane privato. Io appaio molto e non ho paura di bruciarmi perché apparire è la mia forza, come una cosa buona: più la mangi più la mangeresti».
Una cosa che, invece, ha tenuto molto per sé è stata la morte di suo figlio Conor.
«Un trauma gravissimo...»
Però in una puntata di Buona Domenica, mentre andavano in onda i filmati di suo figlio, Paola Perego doveva incalzarla: «Lory, è la tua vita questa», perché lei era quasi impassibile.
«Mi stavo trattenendo così tanto che non sentivo più i muscoli della faccia: io credo che sia molto importante controllarsi, non sempre è possibile, ma ci provo fino allo sfinimento. Voglio essere impenetrabile quando il dolore ha il sopravvento. Quei video non li avevo mai guardati. E quando hanno iniziato a trasmetterli mi chiedevo: li guardo o no? Ho capito che se l’avessi fatto sarei crollata e ho puntato gli occhi altrove. Tante volte ho nascosto cose per non ricordare, e altrettante volte mi sono chiesta se fosse giusto. Alla sua tomba ci sono tornata solo una volta, dopo i funerali, ma è stato così doloroso che non ho capito se mi aiutava oppure no. Dimenticare può anche voler dire non vedere, non sapere, non ricordare, non tornare indietro. Illudersi che il tempo cancella è il credo, l’illusione appunto, che ho seguito».
Ci è riuscita?
«Dal giorno in cui il bambino non c’è più stato io ho deciso che avrei vissuto concentrata sull’oggi, e che di ogni giorno dovevo trovare un motivo, anche stupido, perché mi sembrasse bello. Al mattino mi sveglio e mi dico: “Non posso essere depressa perché oggi, per esempio, sono più giovane di quanto sarò domani”».
I risvegli sono difficili?
«Sono come quando accendi il computer e ti appaiono le icone, una dietro l’altra. Arrivano le cose brutte e io le schivo. Mi dico che niente e nessuno deve rovinarmi la giornata. La vita è un attacco continuo e io sono nella mia fortezza e devo difendermi perché ognuno, intorno, mi fa del male: la donna di servizio rompe un bicchiere, qualcuno per strada è scortese, il postino consegna una multa, mio figlio mi dice che ho sbagliato e io pensavo di aver fatto bene. Tutti vengono per uccidermi, e io devo sopravvivere: ho posizionato gli scudi intorno e mi difendo».
Il non ricordare non è un torto alla memoria di ciò che è stato?
«Ho fatto dei trattati di pensiero su questa cosa. Mi sono detta che, forse, questo fatto non è mai esistito, che è un’invenzione della mia mente, forse posso convincermi che è stato come vedere un film: poi esci e ne parli, ma quella cosa non esiste».
Intanto che parliamo si mette a guardare le stampe delle foto che vedete in queste pagine. Foto personali che ha deciso di darci. «Le avevo nascoste seriamente: non le guardo da vent’anni». Dice: «Questo è lui», lo chiama lui, non pronuncia mai Conor, il suo nome. Si interrompe e piange. Gira la testa con violenza, dall’altra parte. «Non devo guardarle, vede cosa succede?». Parla piano. «Ok, basta, ok». «L’ho pianto tanto, adesso basta. Per cinque anni non ho fatto altro». Si ricompone. «Mi scusi, non mi succede mai. Di solito riesco a convincermi che è un caso che non mi riguarda, che non era mio figlio, ma solo di lui», e indica Eric Clapton, il padre di Conor, in una foto.
Lui ha scritto una bellissima canzone per non dimenticare Conor. Che effetto le fa ascoltare Tears In Heaven?
«Ah, quella è terribile. Non ce l’ho, ma è una bella canzone. Assolutamente impossibile per me da ascoltare. Penso che sia il suo regalo, il più grande regalo che gli abbia fatto. Col bambino si è sempre comportato in maniera piuttosto originale. Gli doveva un regalo, e il regalo è questo».
In che senso «originale»?
«Sicuramente non come io penso che un padre si dovrebbe comportare. Però credo che nella vita ci sia anche il tempo del riscatto, e so che lui si sarebbe riscattato. Aveva già iniziato, poco prima della tragedia. Poi non c’è stato più tempo».
Vi siete mai più sentiti?
«Non ne abbiamo mai più parlato. Lui vive in un silenzio mortale ed è questo silenzio che ha ucciso anche la nostra storia. Dopo questo fatto tutto è diventato pietra. Io continuavo a piangere, lui non versava una lacrima: non ci riuscivamo a trovare, né a consolare. Lui, dopo, ha tentato di tornare: telefonava, sì, ma era freddo. E io non vedevo uno spiraglio. Alla fine ci vedevamo solo ai funerali: prima quello di sua nonna, che lo ha cresciuto, e subito dopo quello di sua mamma, che l’ha avuto a sedici anni, è scappata di casa e l’ha ritrovato solo da adulto. Sono morte tutte e due poco dopo la tragedia».
Conor è precipitato da una finestra aperta. Oltre che con il dolore ha dovuto fare i conti, dopo, anche con il senso di colpa?
«Io stavo salendo delle scale per andarlo a vestire, lo sentivo giocare in camera sua. Ero a metà scala e ho sentito il rumore di un fax che stava arrivando. Ricordo la voce del bambino e il suono del fax, una su, l’altro giù e io in mezzo. Però sono scesa a prendere il fax. Se non l’avessi fatto, se mi fossi detta che, invece, dovevo vestire mio figlio, perché era più importante, non sarebbe successo, perché in quei pochi istanti in cui io sono scesa lui è uscito dalla sua stanza ed è andato nell’altra, quella in cui il cameriere aveva lasciato la porta finestra, che era una parete, aperta. Ci penso sempre a quel maledetto fax».
E poi?
«E poi sono salita e non l’ho visto. Non c’era più. La sua stanza vuota e nell’altra, accanto, quella finestra aperta e nessun posto dove avrebbe potuto nascondersi. Il cameriere ha detto: “L’ho visto passare”. E io ho capito tutto. Poi avrei voluto ucciderlo, vendicarmi. Ma era un uomo senza cervello, tanto che alla fine di quella giornata allucinante mi ha chiesto: “Domani vengo alla solita ora?”. Io ho detto What?, e lui: I’m sorry. Nel silenzio, quella frase, inutile: I’m sorry».
Clapton c’era?
«Quando è successo no, poi è arrivato. Gliel’ho dovuto dire, non so neanche io come. Era venuto a prendere il bambino per portarlo allo zoo di Central Park, non aveva mai visto l’orso bianco. Non l’ha mai più visto».
Dopo poco è rimasta incinta di Devin.
«Sì, e l’ho scoperto quando ormai la storia con il padre di Devin (Silvio Sardi, ndr) era chiusa. Ero sola, disperata e senza denaro, ma ho pensato che la notte non dura mai per sempre. C’è un’impossibilità di precisione sulla negatività che lascia spazio all’ottimismo: se giochi sempre il 20 al casinò non è detto che esca, ma potrebbe anche farlo. E così io vedo la vita. Bisogna avere il coraggio di girare l’angolo: non vedi cosa c’è dietro, ma lo devi fare. E così ho tenuto Devin e, anni dopo, anche Loren, pure lui figlio di un’avventura già finita. Due grandi regali».
Un destino di madre a prescindere...
«Assolutamente. Gli uomini sono complementari. Ci vuoi essere? Bene. Non vuoi? Sparisci. A me va bene, ma non tornare indietro. I figli sono delle donne. Mia sorella non l’ha mai capito e ha passato la vita a cercare l’uomo ideale con cui fare un bambino. Non l’ha trovato e adesso, che è tardi, un figlio non ce l’ha. Io me ne sono fregata delle cose sociali e i miei figli sono il nucleo della mia felicità».
Lei non ha mai detto ai suoi figli chi sono i loro padri. Come ha gestito le domande?
«Devin ogni tanto chiedeva, e poi ha iniziato a fare ricerche su Internet. Chi fosse suo padre l’ha scoperto da solo, a 17 anni. E l’ha voluto incontrare. Voleva capire perché lui non ci fosse. Si è reso conto che non era una mia responsabilità, che non si poteva fare altrimenti».
Si è mai sentita sola?
«Molto, in un certo senso. Per nulla, per altri. La mia è stata una vita in perenne movimento, ho sempre cercato nell’avventura la soluzione dei miei problemi, non sono mai stata ferma ad aspettare. Sa, quell’angolo che dicevo, quella notte che non può durare per sempre».