Semir Seki, La Stampa 27/10/2010, 27 ottobre 2010
HO SMASCHERATO MICHELANGELO
UNIVERSITY COLLEGE - LONDRA - Michelangelo era convinto di essere il più grande scultore della sua epoca. E presto si adoperò per convincere ogni suo contemporaneo. Quando, una volta, il Papa chiese di «Michelangelo lo scultore», egli replicò: «Io sono Michelangelo Buonarroti, non conosco rivali e non riconosco nessuno pari a me». È forse difficile credere che due terzi delle sculture di questo autoproclamato genio, ammirato da secoli, siano rimaste incompiute. Eppure scopriamo che, percorrendo la sua arte insieme alla concezione che egli stesso ne aveva, ci sono le medesime crepe e fenditure che caratterizzano l’opera di altri artisti, che si possono far risalire alla quasi impossibilità di soddisfare i concetti del cervello. Alla fine, questa quasi impossibilità lasciò Michelangelo in uno stato di perenne insoddisfazione.
Per tutta la vita, egli fu dominato dal desiderio soverchiante di rappresentare la bellezza non solo fisica ma anche spirituale, e l’amore divino: un’impresa quasi impossibile per tutti tranne che per alcuni artisti della sua levatura. Tuttavia, pure lui esitò e fallì. Ci sono pochi dubbi che, nella sua cultura neoplatonica, la bellezza fisica e quella spirituale fossero intrecciate e non facilmente separabili, che egli visse diverse relazioni amorose, e che anelasse a una dimensione fisica e spirituale di queste relazioni. Come Tristano e Isotta, e come innumerevoli altri amanti, egli aspirava a quell’unità che è il concetto cerebrale, oltre a essere il contrassegno dell’amore passionale. In una poesia dedicata a Tommaso de’ Cavalieri, l’avvenente giovane nobile romano che dominò la vita sentimentale dei suoi ultimi anni, egli scrisse alcuni versi sorprendentemente simili per tensione sentimentale a quelli dei casti amanti del secondo atto di Tristano e Isotta. Anzi, potremmo affermare che rispecchiano perfettamente il tema principale dell’opera.
«S’un casto amor, s’una pietà superna,/s’una fortuna infra due amanti equale,/s’un’aspra sorte all’un dell’altro cale,/s’un spirto, s’un voler duo cor governa;/ ...se mille e mille, non sarien centesmo/a tal nodo d’amore, e tanta fede;/e sol l’isdegno il può rompere e sciorre».
Sia le sue imprese artistiche sia i suoi sonetti e madrigali testimoniano la profonda insoddisfazione di Michelangelo verso la propria vita, non meno che la propria arte. Questo stato di insoddisfazione è caratteristico di molti grandi artisti, forse di tutti. Lo è pure di molte donne e uomini comuni, e credo si possa attribuire all’incapacità della realtà di corrispondere al concetto sintetico generato dal cervello. Semplicemente, la discrepanza tra i due - la realtà e il concetto - è maggiore negli artisti di talento e di genio. Tuttavia, si tratta di una differenza di grandezza e non di genere. Una soluzione adottata da molte persone comuni, quando si rendono conto della grandezza del compito che li aspetta, è abbandonare ogni tentativo. Persone di talento potrebbero avere il desiderio di scrivere un romanzo o di comporre una sinfonia. Molti possiedono le necessarie abilità linguistiche o musicali ma si arrendono quando comprendono la difficoltà di tradurre in arte i loro concetti cerebrali, oppure lasciano l’opera incompiuta.
Michelangelo adottò in parte la stessa soluzione. Sappiamo che egli, che era «incantato» dalla bellezza e nei sonetti aveva cantato di bei volti, pur tuttavia abbandonò il tentativo di rappresentarli in forma di ritratti. Semplicemente, si rifiutò di eseguirli, con le uniche due eccezioni di Tommaso de’ Cavalieri e di Andrea Quaratesi, dei quali era innamorato. Infatti, nella sua arte non era interessato a tradurre alla perfezione il modello, bensì il concetto nel suo cervello, come risulta da un altro sonetto, dove - secondo la mia interpretazione - la «forza d’arte» indica il concetto del cervello a briglie sciolte.
«Se ben concetto ha la divina parte/il volto e gli atti d’alcun, po’ di quello/doppio valor con breve e vil modello/dà vita a’ sassi, e non è forza d’arte».