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 2010  ottobre 26 Martedì calendario

LA «FUGA» DEL LATITANTE NEI CASERMONI-RIFUGIO DEL GHETTO DI BELGRADO —

«Niente. Non ho niente da dire». La signora Kovacic — si legge sulla targhetta — si affaccia alla porta, sigaretta e bigodini nei capelli biondi tinti. E se mai ha visto aprirsi la porta del suo vicino, proprio di fronte alla sua, allora in questo corridoio di linoleum nero ha anche incrociato Ratko Mladic. Ma lei non ha visto, non ha denunciato. Non parla.
Ratko Mladic, il generale serbo accusato del genocidio di Srebrenica e in fuga da 15 anni, ha vissuto qui per 18 mesi, tra il 2003 e i 2006. Al 118 di Jurij Gagarin, appartamento numero 20 d’una torre alta 14 piani. L’ha raccontato in un processo una delle sue guardie del corpo, Jovan Drogo. Nella stessa via, solo un chilometro più in basso verso l’aeroporto — al 267, condominio 45 — viveva l’altro grande fuggiasco, Radovan Karadzic, quando l’arrestarono. Il ghetto povero di Novi Beograd. Casermoni di cemento grigio replicati in serie, bancarelle improvvisate e stracci esposti anche per terra ai due lati dell’arteria a sei corsie: li comprano i profughi serbi, scappati dalle guerre in Croazia, Bosnia, Kosovo. Campetti da basket e spiazzi d’asfalto posati tra i palazzi, l’idea comunista di come render vivibile una periferia.
Ma è solo entrando nel condominio 118 che si ha l’idea di un fortino. Cinque piani di scale buie prima d’arrivare al «20», porte che sbattono e nessuno che esce, chi incontri nei corridoi fila dritto come un’ombra. Sembra un codice condiviso, meglio non impicciarsi degli affari altrui. E infatti, dietro alla porta che fu di Mladic, la tv è accesa: ma i nuovi inquilini Natalija e Milorad Miluvanovic non sentono bussare. Aprono, invece, a sinistra, i signori Recic, ben oltre i 70 anni, e per farti capire devi urlare: «Sì, abbiamo letto sui giornali». Sorridono. «Sì, viviamo qui da 30 anni, 2 stanze e mezzo, 80 euro al mese (Mladic ne pagava 400, ndr)». «No, grazie, benvenuti sulla porta, ma non si può entrare a vedere». Piuttosto, colpisce la disposizione dell’appartamento «20»: in cima alla rampa di scale, la porta con il vetro rotto a sbarrare un’uscita sicurezza, in basso vie di fuga a destra e sinistra, mentre un cecchino dall’alto può coprirti la corsa. Un garage sotterraneo. Certamente, questo non è un lavoro logistico da dilettanti. Se Hollywood dovesse sceneggiare un film a Belgrado, è qui che metterebbe la casa del gangster.
Novi Beograd è tornata al centro della caccia. È bastata un’inchiesta del New York Times, nel weekend, a scuotere l’establishment, a far ammettere al procuratore generale serbo per crimini di guerra Vladimir Vukcevic che «oggi sappiamo molto più di cinque mesi fa», a far dire al ministro per la cooperazione con l’Aja che «non si può escludere che Mladic fino al 2008 fosse a Novi Beograd». Un articolo con due interviste bomba. La prima a un investigatore coinvolto nelle ricerche: sì, ha detto, fino a cinque mesi prima che Tadic salisse alla presidenza (2008), tenevamo sott’occhio i nascondigli e pedinavamo chi gli faceva la spesa. La seconda a uno 007 pedinatore: «Mladic era molto disciplinato — ha raccontato —. Stava in casa, e gli veniva lasciata la spesa davanti alla porta». Hanno fatto i conti in tasca a Mladic: s’arrangiava con 200 euro come un pensionato. «Non usciva mai, neppure per andare al parco. Era come agli arresti domiciliari».
In verità, molto della vita belgradese di Mladic tra il 2000 e il 2008 non è un mistero. Nel 2006 hanno arrestato 12 bodyguard; un anno dopo anche Vladimir Tolimic, numero 3 sulla lista dei ricercati dall’Aja (ex capo dell’intelligence militare in Bosnia), capo della Rete che lo nascondeva. Le guardie del corpo hanno parlato, hanno descritto l’ «Organizzazione», una rete di militari e spioni. Quattro i posti di incontro, stazioni e caffè affollati nel centro di Belgrado. Cellulari spenti nel raggio di 4 chilometri. Niente parole, gli ordini viaggiavano sui pizzini. La pianificazione militare applicata alla fuga.
Così funzionava dopo il 2002, l’anno di rottura. Prima per Mladic c’è stata quasi sicuramente l’esistenza protetta a Topcider (parola del procuratore Vukcevic), la caserma bunker disegnata da Tito sulla collina di Dedinje, quella delle ville eleganti; le sfide a tennis coi commilitoni, documentate nei video sequestrati; le partite del Partizan seguite in tribuna, i brindisi al ristorante a Milosev Konak, il 22 gennaio 2001, la sera che Carla del Ponte arrivò in città. «Eravamo anche 50 bodyguard — ha raccontato a un processo del 2007 Bronislav Puhalo, militare, che lo scortava —. Non facevamo nulla d’illegale, avevamo l’ordine di proteggerlo anche dai cacciatori di taglie». Cinque milioni sulla testa, ma lui era al cospetto della madre morente nel 2003, quella che l’ha cresciuto in indigenza orfano di padre, a cui ha fatto costruire una lapide nera, nel villaggio natale di Bozanovici sopra Sarajevo: «Procurata dal figlio Ratko», ha fatto scrivere nel marmo. Solo quando Kostunica, nel 2002 gli chiede d’andarsene da Topcider, e al suo rifiuto manda gli elicotteri e i parà che si calano dal cielo, Ratko si eclissa a Novi Beograd. Qualche mese dopo, Zoran Djindjic verrà ucciso da un cecchino, Milorad Lukovic «Legija» : aveva appena promesso alla Del Ponte il suo arresto.
Ma anche Mladic ha pagato il conto. «I procuratori credono — dice il giornalista Dejan Anastasijevic — che abbia con sé non più di due-tre operativi». «È solo questione di tempo», dichiara il presidente Tadic. Sanno dov’è, chi ancora lo protegge?
«Il problema è sempre lo stesso: la Serbia non vuole fare i conti con i crimini e il genocidio in Bosnia», spiega Janja Bec. Lei, serba, insegna diritti umani agli studenti di Sarajevo, nel 2005 l’hanno candidata al Nobel, i nazionalisti la vedono come una strega. «Perché il genocidio, per definizione e legalmente, chiama in causa un popolo. E il genocidio di Srebrenica — dice — è un processo lungo, ed è iniziato qui». Non l’11 luglio 1995, quando Mladic arrivò nell’enclave Onu e al comandante l’olandese Karremans disse: «Levati, tu oggi non sei nulla e io sono Dio». E ordinò di uccidere 8mila uomini musulmani.
O forse il problema, come crede Anastasijevic, è che Mladic sia appunto un militare. Non un baro trasformista come Karadzic, che a Belgrado s’è calato — magari divertendosi — nella sua quarta o quinta vita, quella del guru Dragan Dabic. Neppure un boss che muove ricchezze. Piuttosto, un militare fuggiasco metodico e maniaco, che prolunga e crede di difendere sotto la bandiera serba l’esito di quella (disastrosa) guerra e ciò che intende per onore.
Mara Gergolet