Marco Belpoliti, La Stampa 26/10/2010, pagina 34, 26 ottobre 2010
Ugo Mulas fotografare la gibigianna - Come si diventa un grande fotografo? Spesso per caso. Il giovane Ugo Mulas, aspirante poeta, arriva a Milano dalla natia Pozzolengo, in provincia di Brescia, per studiare Giurisprudenza alla Cattolica, ma ben presto s’iscrive a un corso di nudo all’Accademia di Brera e finisce al Bar Jamaica
Ugo Mulas fotografare la gibigianna - Come si diventa un grande fotografo? Spesso per caso. Il giovane Ugo Mulas, aspirante poeta, arriva a Milano dalla natia Pozzolengo, in provincia di Brescia, per studiare Giurisprudenza alla Cattolica, ma ben presto s’iscrive a un corso di nudo all’Accademia di Brera e finisce al Bar Jamaica. Lì qualcuno gli mette in mano una vecchia macchina, gli spiega che un centesimo e undici al sole, e un venticinquesimo e cinque-sei all’ombra. Così comincia a scattare. Una leggenda d’artista? Non troppo. Mulas, che è stato uno dei più importanti fotografi del dopoguerra, maestro indiscusso di una generazione e mezzo, autore di fotografie che si sono impresse nella nostra memoria collettiva, ha cominciato così, da assoluto autodidatta, com’è accaduto a molti di quella generazione nata negli anni Venti del XX secolo, sia scrittori sia artisti, e dunque anche fotografi. In effetti, come scrive Elio Grazioli nella prima monografia, Ugo Mulas (in uscita da Bruno Mondadori, pp. 215, e19), dedicata al grande fotografo milanese quasi quarant’anni dopo la sua scomparsa, Mulas è entrato nel mondo della fotografia attraverso le immagini degli altri, scrivendo didascalie alle fotografie in una agenzia. Poi, per caso, incontra Mario Dondero, licenziato da Le ore, e su una panchina di un parco i due decidono con una sola macchina fotografica di fare il mestiere, alternandosi. Altra leggenda d’artista o verità storica? Grazioli giustamente parla di scena primaria che concentra l’attenzione sugli aspetti umani che costituiscono, nel caso dei due grandi fotografi italiani, il contenuto stesso delle loro immagini. Il libro, sotto l’apparente sottotono della trattazione - comincia con la data di nascita e scandisce il lavoro di Mulas in modo cronologico -, indica alcuni aspetti centrali del lavoro del fotografo sin qui trascurati. Il primo è l’attenzione alla luce. A partire dai primi scatti neorealisti, dedicati a Milano, all’inizio degli anni Cinquanta, per arrivare alle Verifiche, uno dei lavori più importanti del XX secolo, per quanto riguarda il rettangolo di carta sensibile, ciò che interessa a Mulas è la luce prima ancora che la rappresentazione. Una foto del 1953-54 mostra un uomo che si accende una sigaretta seduto al Bar Jamaica. Mulas racconta questa immagine: «Volevo vedere sino a che punto si poteva fare una fotografia con la luce di un solo cerino». Gli interessa l’«effetto», non la «verità» dell’immagine. Grazioli lo spiega bene raffrontandolo a Cartier-Bresson, fotografo dell’«istante decisivo». L’evento di Mulas è il reale che «punge» l’immagine, «è l’acutezza dell’occhio del fotografo, che pensa, riflette, mentre guarda». Mulas vuole intrecciare l’etica e l’estetica scandagliando fino in fondo le peculiarità del mezzo: la macchina fotografica, la fotografia, e il linguaggio stesso che il fotografo utilizza, fino a occuparsi non solo della sintassi visiva, ma anche dell’aspetto materiale dell’immagine. Un percorso unico. Per farci capire il lavoro di Mulas, Grazioli rovescia la lettura della sua opera; mentre la racconta cronologicamente, in realtà ci fa vedere come l’ultimo, o penultimo, atto, le Verifiche, siano la chiave con cui leggere gli esordi. Mulas è noto per essere stato il fotografo degli artisti. Alla Biennale di Venezia del 1964 incontra gli americani della Pop Art, poi va a New York, lui che non parla inglese, per cogliere una generazione decisiva; e ancora in Italia è negli studi, nelle mostre, negli incontri pubblici. Per il fotografo milanese la realtà prende la forma dell’arte sia che si tratti di persone sia di opere o momenti in cui le opere si fanno (memorabili gli scatti a Fontana che posa mentre recide la tela). Arriva persino a vedere una somiglianza tra i volti degli artisti e le loro opere, come nel caso di Calder, lungamente ritratto, o lavorando sui luoghi di Montale, alle Cinque Terre, e raffigurando il poeta di profilo con la sua upupa. Ci sono sottigliezze che Grazioli sottolinea, come l’attenzione alle ombre degli artisti che lavorano, o l’importanza data nei suoi ritratti all’aspetto riflessivo, al pensiero, invece che all’esecuzione vera e propria dell’opera artistica. Questa lettura mette in evidenza l’aspetto concettuale di Mulas, poeta della luce e della materia; l’autore del saggio l’accosta a Duchamp ritratto nel suo «non-fare», e a Andy Warhol, artista dell’indifferenza e dell’inazione, pur nella sua frenesia. Le Verifiche, iniziate alla fine degli anni Sessanta e terminate nel 1973, uniscono due linee dell’arte italiana del XX secolo e le portano probabilmente a compimento col mezzo fotografico: minimalismo e concettualismo. Il culmine di questo lavoro complesso, arduo, eppure sostenuto da una semplice e felicissima intuizione, è forse nell’autoritratto davanti a uno specchio: la macchina fotografica copre il viso nella piccola superficie riflettente, mentre l’istantanea è dominata dall’ombra dell’artista che sta scattando. In primo piano il sole ha creato un’ombra contro il muro, cui corrisponde, nello specchio un abbaglio, una gibigianna, per dirla con i versi di un poeta: un’apparizione. La fotografia come riflesso, ma anche apparenza, luce e apparizione, ombra, negativo che è positivo. La fotografia come campo di scambi continui in cui cogliere l’effetto, una verità del nostro stesso esistere come soggetti e oggetti dell’arte che ci fissa nel tempo a venire.