Niccolò Zancan, La Stampa 26/10/2010, pagina 1, 26 ottobre 2010
Rom, bambini in guerra “Brutti, sporchi e cattivi” - In uno dei campi nomadi di Torino, i rom hanno costruito un muro di ferro, una cancellata, per dividere i bambini cristiani da quelli musulmani
Rom, bambini in guerra “Brutti, sporchi e cattivi” - In uno dei campi nomadi di Torino, i rom hanno costruito un muro di ferro, una cancellata, per dividere i bambini cristiani da quelli musulmani. «Quelli di là sono sporchi, hanno il moccolo al naso. Serbi e bosniaci non si devono mischiare». Patrick Georgevic, 25 anni, capelli rasati, parla così dei suoi vicini, senza il minimo imbarazzo: «Si comprano auto da trentamila euro e mandano i figli lerci a scuola. Sono degli schifosi. Non devono salire sullo stesso pulmino dei nostri figli». Diluvia sul campo nomadi di Strada dell’Aeroporto. Si sente il rumore del traffico della tangenziale, che corre a fianco delle baracche e delle roulotte. L’acqua impregna i cavi elettrici del lavoro di ristrutturazione lasciato a metà, il fango segna il confine esatto del problema: dalla parte con il cemento ci sono serbi e croati ortodossi, dall’altra rom bosniaci musulmani. La guerra del pulmino è incominciata con l’anno scolastico. La combattono ogni mattina studenti delle medie e delle elementari, anche bambini di sette anni, in molti casi sostenuti dai genitori: insulti, pugni, offese, prese in giro, minacce. Chi perde resta al campo a giocare fra i topi, invece che andare in classe. Ogni giorno si ripete la stessa scena. E quando chiedi perché, ricevi una raffica di risposte contrapposte. «Perché loro sono sporchi, non sanno vivere da italiani. Guarda me, invece... Ciao fratello.. Forza Mussolini!», urla un ragazzo serbo con la sciarpa di Armani al collo. «Perché loro non ci lasciano vivere - spiega Maria Salkanovic accanto alla stufa - si sfogano contro i nostri figli. Dicono che puzzano, che sono brutti. E allora, qui, siamo tutti d’accordo: vogliamo un pulmino solo per la nostra etnia, un pulmino per i musulmani». L’autista è un signore vicino alla pensione decisamente esasperato, anche al ritorno dal viaggio del pomeriggio: «Tutti i giorni si picchiano, non ne posso più. Ma devo pensare a guidare, io non sono pagato per farli smettere». È un pullman da 32 posti lercio, con i sedili azzurri strappati. Ma va detto anche che solo una ditta - questa - si è presentata alla gara d’appalto per vincere il lavoro. Non è un posto facile, neppure da vivere di passaggio. Qui le autoambulanze spesso chiedono di essere scortate dalle forze dell’ordine prima di entrare per un soccorso. È uno dei quattro campi nomadi autorizzati della città. Ma non si può definire un posto sotto controllo. I lavori di ristrutturazione voluti dal Comune non sono stati ultimati per un motivo preciso: la ditta ha rinunciato all’incarico. In fuga dal campo. «Non c’erano le condizioni di sicurezza. I bambini creavano oggettivamente molti problemi». Carla Osella è la presidente dell’Aizo, l’associazione italiana zingari oggi. Conosce tutti i residenti del campo: «C’è una forte tensione fra gli adulti che si riflette sui bambini - spiega - è una comunità difficile. Vero che ci hanno chiesto più volte di avere un pulmino diverso per i musulmani. Altrettanto vero che noi lo abbiamo sempre negato. C’è già abbastanza razzismo fuori, dovrebbero crescere un po’. Abitano nello stesso campo, devono imparare a convivere». I serbi sono 260, i bosniaci 150. I primi sono daxikanè, i secondi khorakhanè. Religioni diverse, vestiti e comportamenti diversi. L’ottanta per cento dei bambini serbi in età scolare va regolarmente a scuola, solo il sessanta per cento dei loro coetanei, che vivono dall’altra parte della cancellata, ha una frequenza costante. Le madri e i padri bosniaci dicono che è tutta colpa della guerra del pulmino: «Prendono botte, insulti razzisti. Non si può essere trattati così». Carla Osella ritiene che la verità sia più sfumata, come sempre più complessa: «I bambini bosniaci del campo sono oggettivamente bambini difficili. Alcuni di loro sono stati sorpresi mentre lanciavano sassi dal cavalcavia sulle auto. Sempre loro hanno costretto gli operai in ritirata. Non credo che c’entrino le vecchie divisioni della guerra dell’ex Jugoslavia, quanto le nuove tensioni che si sono create al campo. Forse mancano figure carismatiche di riferimento, qualcuno che sappia tenere a bada le rivalità». Però fa effetto sentire le parole piene di disprezzo che si raccolgono con estrema facilità dalla parte con il cemento: «Quei bambini sono degli schifosi. Noi siamo serbi, non c’entriamo nulla con loro. Devono mandarli via. O li mandiamo via noi». Anche il vice-coordinatore del Pdl piemontese Agostino Ghiglia, ieri mattina in visita al campo per un’ispezione - scortato da dieci poliziotti in divisa - ha sentito pezzi di questo racconto. Gli urlavano in faccia verità opposte, da una parte all’altra della cancellata: «Di certo qui ci sono più di cento bambini costretti a vivere in condizioni subumane. Questa è la denuncia che mi sento di fare. Il Comune e le Prefettura devono prenderne atto». Giocano separati. Nessuno si avvicina alla rete metallica. Alle sette di sera Giovanni è ancora in sella alla sua bici. Ha i capelli lunghi biondi e un sorriso disarmante. Perché vi fate la guerra? «Sono loro che hanno iniziato». Loro chi? «I daxikanè. Quelli di là». E voi chi siete? «I khorakhanè». E che differenza c’è? «Non lo so» dice arrossendo, e sgomma via fra le pozzanghere.