Luca Vinciguerra, Il Sole 24 Ore 26/10/2010, 26 ottobre 2010
TUTTI PAZZI PER LO YUAN (A HONG KONG)
Una ragazza in salopette tira fuori dai tasconi due pacchi di banconote con il faccione di Mao e le scaraventa sul bancone. Cinquecento pezzi, segnala il display della cassiera, cioè 50mila yuan tondi tondi. «Quella signora - dice una funzionaria della sede centrale della Hong Kong Shanghai Bank - viene qui tutte le settimane. Negli ultimi mesi siamo stati presi d’assalto da clienti così. E in sede ci sono migliaia di pratiche di apertura di nuovi conti in yuan da smaltire». Tutti pazzi per lo yuan, dunque. Ed è facile capire perché. Da giugno, quando la Cina ha sganciato la sua moneta dal dollaro, il renminbi si è apprezzato di oltre il 2% sul biglietto verde americano. Ma il bello deve ancora venire, pensano a Hong Kong, scommettendo sulla rivalutazione dello yuan.
Scommette la gente della strada che converte a mani basse dollari di Hong Kong stando nei limiti previsti dalla legge, cioè per un controvalore massimo quotidiano di 20mila renminbi (3mila dollari). E scommettono assai più pesante i negozianti, un tempo restii ad accettare le banconote cinesi, oggi invece ben felici di incassarle. «Ormai è pieno di cinesi che vengono a fare shopping con le borse della spesa piene di soldi - spiega il direttore di un grosso negozio di orologi di lusso sulla Queen’s Road - Una volta applicavamo una commissione sul cambio, ma ora ci va benissimo così».
Oggi Hong Kong è l’unico posto al mondo dove il renminbi gode pressoché dello stesso status di dollaro, euro o yen. Oltre a essere utilizzata come mezzo di pagamento o finire nei conti correnti, la moneta cinese può essere impiegata per regolare le transazioni commerciali con cinque città del Dragone (Shanghai, Canton, Shenzhen, Zhuhai e Dongguan). E anche per emettere bond che sono negoziati sul mercato finanziario locale. Il risultato è che oggi sul nuovo mercato offshore di Hong Kong circolano quotidianamente oltre 200 miliardi di yuan (31 miliardi di dollari), mentre il valore complessivo dei conti correnti e delle obbligazioni denominate in renminbi ha raggiunto i 160 miliardi di dollari. Il boom della moneta cinese a Hong Kong non è un fatto casuale. La quasi-libera circolazione dello yuan nella città-Stato asiatica, infatti, è un progetto pilota fortissimamente voluto da Pechino, che l’ha realizzato tramite un’azione coordinata tra la People’s Bank of China e la Hong Kong Monetary Authority.
L’esperimento ha uno scopo preciso: preparare il terreno per la trasformazione dello yuan in una valuta globale. È un’idea che la Cina, di fronte alla lievitazione delle sue riserve valutarie (2.650 miliardi di dollari a fine settembre), sta covando da tempo. E che, dopo la grande crisi finanziaria del 2008, è diventata una pubblica ambizione, come dimostrano le numerose esternazioni con cui Pechino ha reclamato la necessità di rompere il monopolio planetario dal dollaro e di individuare altre valute di riserva da utilizzare come mezzo di pagamento negli scambi commerciali.
Una di queste potrebbe essere proprio lo yuan. I cinesi si sono ben guardati dal dirlo. Ma, con il loro tradizionale pragmatismo, hanno fatto di più, aprendo concrete opportunità di globalizzazione alla loro moneta. Nel 2009, infatti, quando il mondo sconvolto dal terremoto dei mutui subprime era a corto di liquidità, Pechino ha offerto yuan sonanti a diversi paesi in difficoltà. In diversi modi. Stipulando swap valutari per un valore complessivo di 100 miliardi di dollari con paesi emergenti come Indonesia, Malaysia, Bielorussia e Argentina. O sottoscrivendo accordi di "mutuo soccorso" (sempre rigorosamente in renminbi) come quello firmato con il Brasile: qualora quest’ultimo si trovasse a corto di moneta pesante, Pechino è sempre pronta a concedergli finanziamenti in yuan.
«Le condizioni per la globalizzazione dello yuan ci sono sicuramente - osserva Cliff Tan, economista di Société Générale - Basta guardare la crescita delle transazioni quotidiane dello yuan-dollaro sul mercato dei cambi, che sono passate da 1 miliardo di dollari del 2004 a 31 miliardi oggi, o lo sviluppo registrato a Hong Kong da depositi e bond denominati in yuan. E anche gli accordi bilaterali che prevedono la regolamentazione in renminbi degli scambi tra la Cina e una serie di suoi partner commerciali sono un fattore importante in questo processo».
Ciononostante, per trasformare il renminbi da unità di conto a uso interno a mezzo di pagamento internazionale e moneta di riserva, Pechino dovrà osare molto di più. Deve cioè rinunciare a controllare i movimenti di capitale e rendere pienamente convertibile lo yuan (oggi lo è solo all’interno di parte corrente).
Aprire le frontiere alla circolazione dei capitali, però, non sarà facile. «Non dimentichiamo che paesi come Germania o Giappone si sono decisi a liberalizzare solo negli anni 80, quando i loro sistemi finanziari erano già assai stabili e maturi», avverte Tao Dong, economista di Credit Suisse.
Ma la Cina di oggi ha un solo punto in comune con la Germania e il Giappone di trent’anni fa: un massiccio surplus della bilancia dei pagamenti e un invidiabile tesoretto di riserve valutarie. «Il paragone tra il renminbi di oggi e lo yen di allora non regge, perché all’epoca Tokyo poteva contare su infrastrutture, regolamentazioni e strumenti finanziari che la Cina di oggi ancora si sogna», sostiene Nicholas Kwan, direttore dell’ufficio studi di Standard Chartered.
Pechino ne è perfettamente consapevole. Così com’è consapevole dei pericoli insiti nella piena convertibilità dello yuan. «Se nel 2008 anche in Cina i capitali fossero potuti entrare e uscire liberamente come nel resto del mondo, la crisi avrebbe avuto effetti devastanti» dice il funzionario di una banca pubblica cinese.
Insomma, se un renminbi convertibile e globalizzato darebbe alla Cina alcuni vantaggi enormi (gestione più efficiente delle riserve valutarie, sviluppo del mercato finanziario domestico, maggior libertà per le aziende di muoversi all’estero), dall’altro questa prospettiva appare ancora troppo rischiosa. Ecco perché, al di là dei proclami e delle suggestive ipotesi di stampa, a Pechino la parola d’ordine è gradualità.
«Serviranno almeno dieci anni prima che lo yuan diventi una valuta globale - sottolinea Kwan - Ma anche allora, più che somigliare al dollaro, allo yen o all’euro, la moneta cinese sarà qualcosa di simile al dollaro australiano o al franco svizzero».