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 2010  ottobre 26 Martedì calendario

ADELCHI SERENA

La damnatio memoriae è una brutta bestia. Specie se del tutto ingiustificata, sulla base di leggende nere diventate, più o meno misteriosamente, vulgata. Prendiamo Adelchi Serena (1895-1970), a lungo podestà dell’Aquila, sua città natale, quindi importante gerarca, ministro dei Lavori pubblici (19391940) e segretario nazionale del PNF nei primi due fondamentali anni di guerra (1940-1941). Praticamente un desaparecido della pur amplissima storiografia sul fascismo, ignorato o liquidato in due battute come grigio burocrate anche dagli studiosi più seri. Ora però, a colmare questo “buco nero”, arrivano Walter Cavalieri e Francesco Marrella con la densa monografia Adelchi Serena. Il gerarca dimenticato (Gte, pp. 272, euro 30).
Serena non fu soltanto un grande aquilano (magari la città, devastata dal terremoto, avesse oggi un amministratore come lui: farebbe in un mese quello che il sindaco Massimo Cialente non è riuscito a fare in un anno e mezzo), ma anche un politico “nazionale” da rivalutare. Certo, parecchio contraddittorio: giovane ribelle (allontanato da scuola per indisciplina, come del resto Mussolini) e uomo d’ordine, scrupoloso amministratore proprio mentre vorrebbe sovvertire lo Stato, colonialista convinto e ostile al razzismo biologico,
fascista ortodosso e antinazista doc. Epperò, proprio per questo, ancora più affascinante.
Interventista e volontario sul cruento fronte del Pasubio, le cosiddette “Termopili d’Italia”, durante la Grande Guerra, si guadagna in prima linea il grado di capitano dei bersaglieri e una Croce al Merito. Quindi, presa la laurea in Legge a Napoli e iniziata la pratica forense, nel 1921 si iscrive al fascio aquilano e si butta in politica. Moderato, si fa portavoce della piccola borghesia: niente posizioni insurrezionali e pochi, marginali, atti di squadrismo (il Serena violento è il macellaio pluridecorato Gaetano Serena...). Non è un caso che manca la marcia su Roma, giungendovi solo il 31 ottobre 1922.
La “Grande Aquila”
Ma la sua scalata, all’ombra di Alessandro Sardi, sottosegretario ai Lavori pubblici, e Giacomo Acerbo, vicepresidente della Camera e autore della celebre riforma elettorale, non conosce ostacoli. Nel 1924, grazie a 12mila preferenze, è già deputato, tra i più giovani, porta il Duce all’Aquila e stringe la fondamentale amicizia con il vicesegretario del partito Achille Starace. Nel 1926 è nominato primo podestà di Aquila: rinuncia a ogni retribuzione (compresi i rimborsi spese) vivendo a carico dei genitori, riduce il personale e dà il via al progetto della “Grande Aquila” per
contrastare l’ascesa di Pescara. Tra una carica e l’altra, e tra una trasformazione e l’altra del capoluogo (l’Opera Salesiana, la chiesa di Cristo Re, i cinema, la piscina coperta, lo stadio, la funivia del Gran Sasso...), destinato a diventare un centro turistico invernale, il suo peso in Abruzzo aumenta sempre più.
È ora di conquistare la capitale. E Serena, dal 1932 marito della prima ereditiera d’Abruzzo e dal 1938 abitante ai Parioli nello stesso stabile del filosofo Giovanni Gentile, sempre più legato al segretario del PNF Starace, ci si mette d’impegno. Entra nel Direttorio nazionale del partito (1932) e nel Gran Consiglio del Fascismo (1934), è commissario federale dell’Urbe (1933) e vicesegretario del partito, che rappresenta alla VII Fiera di Tripoli. Quando Mussolini annuncia l’attacco all’Etiopia e Starace parte volontario, Serena diventa “reggente” del PNF ed è lui il grande regista dell’annuncio dell’esito vittorioso della guerra e della fondazione dell’Impero.
Nel 1938 non aderisce al famigerato Manifesto degli Scienziati Razzisti: per lui le teorie antisemite sono «pagliacciate», tanto che continua a farsi curare da medici ebrei. Ma non ha certo la forza di opporsi alle leggi razziali. Come poi al “Patto d’acciaio” con la Germania. Dal 1939, intanto, è ministro dei Lavori pubblici, incarico svolto tutto in funzione dell’autarchia e del prevedibile imminente sforzo bellico. Adelchi lavora anche 14 ore al giorno e dopo lo scoppio del conflitto dorme persino al ministero, fino a contrarre un grave esaurimento. Il 30 ottobre 1940, però, Mussolini gli chiede di subentrare a Ettore Muti nella carica di segretario del PNF: non può rifiutare.
La lite con Tassinari
Serena non scrive libri, pronuncia pochi discorsi, insomma non colpisce la fantasia delle masse, ma è un infaticabile organizzatore. Paladino di un populismo moralizzatore, punta su GUF, GIL e sull’Istituto nazionale di cultura fascista per far di nuovo seguire dal partito la vita degli italiani da molto vicino. Vorrebbe il PNF preminente organo politico decisionale, al di sopra della legge e fonte del diritto fascista. Ma l’inevitabile scontro con il Senato, proprio mentre il Duce si faceva garante della supremazia dello Stato, lo vede sconfitto. Un litigio con il ministro dell’Agricoltura Giuseppe Tassinari è l’occasione giusta per farlo fuori. E Serena va di nuovo volontario in guerra, stavolta sul fronte balcanico contro i partigiani di Tito col grado di maggiore, guadagnandosi una Croce di guerra al valore militare (maggio 1943).
Dopo la caduta del Duce, torna in abiti borghesi, da latitante, a Roma, protetto da Pio XII. Non aderisce, quindi, alla Rsi come il suo vecchio maestro Starace. Anzi, collabora con la Resistenza romana. Processato in contumacia dall’Alta Corte di Giustizia di Roma, il 10 luglio 1947 viene amnistiato: l’unica sanzione è la cancellazione dall’albo degli avvocati. Si ritira così a vita privata, dedicandosi alla lettura e alla gestione dell’azienda agricola del suocero, nonostante la tessera onoraria n.1 riservatagli per anni dalla sezione aquilana dell’Msi. Morirà nel 1970, dopo una lunga malattia, senza neppure avere il gonfalone del Comune aquilano ai funerali. Una grande vergogna, come testimonia questo libro.