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 2010  ottobre 24 Domenica calendario

LA TRISTE STORIA DELLA BELLA BEATRICE CHE UCCISE IL PADRE AGUZZINO E FU DECAPITATA

Dell´antico carcere di Corte Savella, famigerato per la crudeltà dei suoi aguzzini, restano pochissime tracce, tra via Monserrato e piazza Santa Caterina della Rota, dove oggi enoteche e ristoranti si alternano a gallerie d´arte. E´ di qui che l´11 settembre del 1599, nelle prime ore del mattino, uscì Beatrice Cenci, rea confessa di parricidio, per essere condotta al supplizio sul palco preparato davanti a Castel Sant´Angelo. Nel 1999, allo scopo di celebrare degnamente la memoria di Beatrice, decapitata a sedici anni, il Comune di Roma ha scoperto una targa che la definisce «vittima esemplare di una giustizia ingiusta». Proprio così la pensava l´immensa folla che quella calda mattina del 1599 accompagnava al patibolo Beatrice, suo fratello Giacomo e la matrigna Lucrezia Petroni, sperando fino all´ultimo nel perdono di Clemente VIII. Il papa sapeva bene che la vittima, per chiamarla così, di quel complotto familiare era un uomo crudele e scellerato, molte volte scampato alla giustizia solo grazie al suo rango di aristocratico e ai suoi soldi.
Le angherie alle quali Francesco Cenci sottoponeva i figli e la seconda moglie erano ben note, e risultano anche dai verbali delle indagini sul suo omicidio. Più volte Francesco aveva abusato sessualmente di Beatrice, la più giovane delle sue figlie. Solo un matrimonio avrebbe potuto salvare la ragazza da quell´inferno domestico, ma il padre non aveva nessuna intenzione di spendere i soldi della dote. Al contrario, aveva segregato moglie e figlia nella fortezza della Petrella, lontano da Roma, per disporre di loro come meglio gli pareva. Fino alla notte in cui Lucrezia e Beatrice addormentarono il tiranno con dell´oppio, e due sicari gli infilarono un chiodo nell´occhio e uno nella gola. Ma se ci fu mai un delitto imperfetto, fu quello di Beatrice Cenci e dei suoi familiari. In particolare, furono due lenzuola macchiate di sangue a tradire Beatrice, che le aveva incautamente affidate a una lavandaia. Con l´ausilio della tortura, fu facile ottenere tutte le confessioni di cui gli inquisitori avevano bisogno per chiudere il caso.
E fu anche da subito chiaro che la moglie e i figli di Francesco Cenci avevano agito per disperazione, e che la loro poteva essere considerata una specie di autodifesa dettata da una necessità assoluta. Tutta Roma, durante il processo e fino al giorno della sentenza, parteggiò apertamente per Beatrice, considerata una martire e un´eroina. Lo stesso Clemente VIII, inflessibile nella sua volontà di dare un terribile esempio di giustizia, e sordo alle intercessioni di tanti cardinali e nobili romani, al momento dell´esecuzione, avvertito da una cannonata proveniente da Castel Sant´Angelo, concesse alla giovane l´assoluzione detta «maggiore». Una specie di devozione popolare accompagnò fin da allora la memoria di Beatrice, e non stupisce la quantità di artisti che ne hanno raccontato la storia, da Shelley a Stendhal, da Dumas ad Artaud.
Si dice che tra la folla che assisteva al supplizio ci fosse anche il Caravaggio. Ma forse fu Guido Reni l´autore di un ritratto di Beatrice, la testa coperta da un turbante, conservato a Palazzo Barberini. Né l´autore né il soggetto sono certi. La forza delle tradizioni è maggiore, in certi casi, dell´assenza di prove e documenti d´archivio. Certo è che si tratta di un capolavoro della pittura del tardo Rinascimento. «La testa è delicata è bella», scrive Stendhal, «lo sguardo dolcissimo e gli occhi molto grandi: hanno l´aria stupita di una persona che è stata colta di sorpresa proprio nell´attimo in cui piangeva calde lacrime». In effetti, la giovane donna appare girata di spalle, e chi la guarda ha la sensazione di essersi introdotto in un luogo dove credeva di essere sola, immersa in chissà quali pensieri. E´ un´invenzione semplice e potente, destinata a imprimersi indelebilmente nella memoria. Se si tratta davvero di Beatrice, il pittore ha scelto di rappresentarla in un´attitudine pacata e malinconica, come al termine di un esame interiore più importante e necessario di ogni giudizio altrui, fosse pure quello di magistrati con diritto di vita e di morte. E gli scrittori, gli artisti, i musicisti che si sono ispirati a questa cruda e triste vicenda hanno interpretato, ognuno a loro modo, i sentimenti suscitati da questo presunto ritratto di Beatrice.
Tra tutti loro, il posto d´onore spetta indubbiamente a Stendhal, che consultò gli atti del processo e si servì di una cronaca composta all´epoca dei fatti. Lo scrittore francese capì che, per gettare qualche luce sul dramma di Beatrice, era alla torva e violenta figura del padre che bisognava rivolgersi. E il suo ritratto di Francesco Cenci è una memorabile meditazione sul male, degna di un grande conoscitore dell´animo umano e dei suoi lati più oscuri. Per far comprendere ai lettori dell´Ottocento una figura così empia e disgustosa, Stendhal ricorre a un archetipo sorprendente, quello di Don Giovanni. Ma si tratta di un Don Giovanni arcaico, quasi primordiale, privo di quel tanto di grazia o almeno di raffinatezza che gli attribuiscono Molière o Mozart. Una tale figura, osserva lo scrittore, sarebbe inconcepibile nel mondo pagano, in cui la società non poneva limiti ai piaceri dell´individuo, purché rispettasse i suoi doveri di cittadino. Un Don Giovanni ad Atene sarebbe passato del tutto inosservato. E´ invece nelle società dove regnano l´ipocrisia e il moralismo, e dove si insegna anche ai bambini «che questa vita è una valle di lacrime e che è meritevole chi si procura sofferenza», che un individuo, protetto dal rango sociale e dalla ricchezza, fa del vizio e dell´impunità una specie di sfida perpetua.
Prima ancora che dei suoi giudici, Beatrice fu vittima di questa perversa alleanza del perbenismo e della scelleratezza. Privo dei sottili strumenti di analisi di uno Stendhal il popolo di Roma, con il suo istintivo senso della verità, accompagnò alla morte l´assassina adolescente, venerandola come una santa. Ogni 11 settembre, il suo fantasma appare dalle parti di Castel Sant´Angelo, tenendo in mano la bellissima testa decapitata, perenne rimprovero all´ipocrisia che maschera la violenza col nome di giustizia.