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 2010  ottobre 24 Domenica calendario

MARIO BOTTA

Mendrisio (Svizzera)
Capelli bianchi, disordinati, sguardo vispo e occhialini sulla punta del naso. Cinquant´anni di carriera da festeggiare sono tanti, soprattutto se di anni se ne hanno settantasette, ma Mario Botta è un lavoratore prima ancora che un architetto. Autore di progetti come il Museo d´arte contemporanea di San Francisco, la sinagoga Cimbalista di Tel Aviv, il Jean Tinguely di Basilea, è uomo infaticabile, rigore svizzero e passione mediterranea. «È che riesco a trovare la serenità di un bambino solo lavorando. La domenica aspetto con impazienza che arrivi il lunedì per rimettermi al tavolo, le vacanze le vedo come una cosa inutile», racconta nello studio di Mendrisio in cui si riflette la luce delle montagne. Nella piccola e ordinata cittadina svizzera, dove è nato, Botta ha creato la sua Accademia di architettura che macina esami e progetti. Con gli studenti non è tenero, ma forse solo perché lui, da ragazzo, non ha perso tempo. «Tutto per me è cominciato ad appena sedici anni, quando decisi di non andare più a scuola. Ed è stata quella la mia fortuna», racconta senza esitazioni: «Ho chiuso con un´istituzione che frequentavo malvolentieri sin dall´asilo e che mi trasmetteva solo noia. Appena ho cominciato a lavorare, tutto è diventato più facile». Oggi si ritiene un uomo sereno: «Ho il privilegio di fare un mestiere che amo e in cui, miracolosamente, anche la matematica diventa bella e utile. Ogni mattina mi sveglia una spinta irrazionale al fare, un bisogno di forma espressiva che, in modo positivo, mi ha reso prigioniero del mio lavoro. Anche gli ostacoli fanno parte dell´innamoramento e, alla fine, c´è la soddisfazione di fornire un servizio agli altri e di sentirsi parte della storia».
Quando poco più che adolescente Botta decide di lasciare la scuola, diventa apprendista in uno studio di Lugano. Capisce che il suo futuro è il disegno, prende la maturità da privatista e si iscrive alla facoltà di architettura di Venezia. Il caso, misto all´incoscienza della gioventù, lo aiuta. «In quegli anni mi capita la fortuna d´incrociare Le Corbusier che è a Venezia per costruire l´ospedale e, con una forza che oggi non avrei più, mi presento dicendogli di voler lavorare con lui. La determinazione è vincente e m´inseriscono nel suo piccolo studio veneziano. Le Corbusier era un genio, grazie a lui la storia della vita diventava la storia dell´architettura, ma è stato anche un uomo duro e smaliziato». Non è l´unico grande maestro di Mario Botta. Si laurea infatti con Carlo Scarpa: «Allora Scarpa era visto con sospetto perché troppo dannunziano e aristocratico, ma tra noi nacque subito un buon rapporto. Ancora oggi la sua è una figura misteriosa e anomala, ricca di una materialità artigianale che non concepisce un approccio ideologico. Scarpa aveva il grande pregio di trasformare in linguaggio contemporaneo i materiali più poveri». E poi c´è stato Luis Kahn: «Si presentava a Venezia come un profeta e io avevo con lui lo stesso tipo di rapporto che ha il fedele nei confronti del Messia. Aveva il dono di cogliere il limite del progresso tecnologico e riproponeva il senso della gravità e della memoria. Scomparso Kahn è arrivato il postmoderno». Un postmoderno che a Botta, evidentemente, non va proprio giù: «No, perché rende la storia una caricatura in cui si confondono gli stili».
Per lui costruire è un atto sacro, un´azione che trasforma una condizione di natura in cultura. «Mi sono avvicinato al sacro in modo profano quando, nell´86, una chiesa venne distrutta da una valanga e mi chiamarono per ricostruirla. Il mio dilemma stava tutto dentro la sfida ancestrale tra uomo e natura. In altre parole mi domandavo come riuscire a conciliare la perenne lotta tra l´architettura sacra e i nuovi strumenti che potessero rendere l´opera resistente. Perché disegnare uno spazio architettonico vuol dire predisporre le forme ambientali affinché i sentimenti possano trovare una loro espressione». Le chiese da quel momento diventano un elemento ricorrente nel lavoro di Botta: la cappella del monastero di Santa Maria a Bigorio, San Pietro e Paolo a Sartirana di Merate, Santa Maria degli Angeli a Monte Tamaro, la chiesa di Papa Giovanni XXIII a Seriate, Santa Maria Nuova a Terranuova. «L´architettura offre strumenti straordinari ma purtroppo nella costruzione ecclesiale nell´ultimo secolo ha dato il peggio. Eppure è meraviglioso realizzare quello spazio finito, che fa parte dell´infinito, con una sfida che unisce il silenzio, la gravità, la luce, la meditazione. L´uomo ha la possibilità di costruire universi dove la carica metaforica è fortissima e che si ripetono da duemila anni». Sintetizza in una frase una cascata di pensieri: «La vera avventura è riuscire a realizzare una chiesa dopo Picasso, conciliando etica con estetica».
Altra passione di Botta, i musei. In cinquant´anni ne ha realizzati parecchi, dalla Galleria d´arte di Tokyo, al Museo d´arte contemporanea di San Francisco, al Mart di Rovereto, al Museo Jean Tingueley di Basilea. Ma anche qui torna il sacro. Per lui lo spazio espositivo di oggi ha un ruolo analogo a quello della cattedrale di ieri: «Il cittadino va in un museo per confrontarsi con l´artista e nel realizzarli si raccontano i bisogni dello spirito di una società apparentemente secolarizzata. Tanto che a me oggi piacerebbe disegnare un convento, un´istituzione totale dove chi entra sceglie di amare e di morire tra quelle mura. Il convento rappresenta una città in miniatura dove ogni settore organizzativo è misurato alla città ideale, una riduzione in scala della grande vita collettiva che per l´architetto può essere il massimo da rappresentare». Ma c´è di più, nel sogno del convento: «La fascinazione verso quelle persone, e sono sempre meno, che hanno la forza di una scelta assoluta».
Botta s´interrompe per una veloce telefonata. Poi riparte vivace, per raccontare quanto conta nel suo lavoro il luogo in cui gli è capitato di nascere: «Cerco di guardare al mio passato con amore ma anche con occhio critico. L´attrazione verso il Mediterraneo è per me molto forte, e condivido Dürrenmatt che era molto sarcastico riguardo a questo dna che ognuno di noi si porta dalle montagne. Sicuramente se fossi nato nel deserto avrei un´altra testa, perché il carattere dominante dell´architetto è dato dal paesaggio e la luce dei luoghi giocano un ruolo fondamentale nella creatività. Guardi le case in Germania, ogni facciata ha lo stesso colore. O prenda gli Emirati Arabi: nessuna consistenza, non mi piacciono i luoghi perfettamente orizzontali. Al contrario amo lavorare in Cina, mi impressiona la legge dei numeri, e quello è inevitabilmente un Paese che viaggia a una velocità stratosferica. Ora sto lavorando a una biblioteca, a Pechino, dove vorrei costruire anche un museo dell´arte occidentale». Un inno al mix della globalizzazione? Tutt´altro: «L´architetto di oggi lavora soprattutto sul territorio della memoria dimenticata proprio dalla globalizzazione, perché la rapidità della trasformazione è proporzionale all´oblio. Noi esistiamo perché ricordiamo e quindi è fondamentale testimoniare il passato».
Nei confronti di un mondo troppo globalizzato è molto severo: «Per godere a pieno del totale bisogna soprattutto assaporare il locale, solo così ognuno può maturare i propri anticorpi. In una società attraversata dalla globalizzazione l´identità non può che passare attraverso l´appartenenza al territorio, alla riconoscibilità di un paesaggio. Per esempio: quando andiamo nei centri storici ritroviamo una qualità di vita straordinaria e spesso è un paradosso perché quei posti sono espressione di un popolo estinto, sono le città dei morti». Ed è proprio questa la grande forza dell´Europa rispetto all´America o alla Cina: «Le nostre sono città legate al passato da un´identità storica e culturale unica, in cui è possibile sentirsi parte di un´umanità che ci appartiene e verso valori che stanno emergendo con sempre più forza». E allora forse non è un caso se nel lavoro Botta coltiva un´aperta ostilità anche di fronte agli strumenti più all´avanguardia (pur riconoscendone le virtù: ad esempio il dimezzamento dei tempi): «Continuo a disegnare a matita perché ha una forza progettuale che manca al computer. Gli strumenti arcaici spesso portano una speranza e io con lo schizzo non sono mai sazio».
L´accademia di Mendrisio è gremita di studenti. Nel sottofondo mattutino si sentono i rumori di tanti passi veloci. Prima dell´estate i "suoi" ragazzi hanno realizzato un piano di ristrutturazione di Varese che ha trasformato la città lombarda in una perla colta e ecologica. «I giovani sono meglio di come vengono descritti, quando arrivano a settembre quelli del primo anno hanno una freschezza che, purtroppo, non ritroveranno più. Ma questa è comunque una scuola di architettura umanistica con tanta filosofia e tanta arte, una scuola capace di sollevare problemi e non di dare delle risposte. Insomma, soprattutto una scuola di pensiero che s´interroga sul significato della vita».
Già, la vita. Mario Botta è un uomo riservato. Tanti figli, una moglie, poche mondanità. Quanto di più lontano dal mondo degli archistar: «Il fatto che improvvisamente gli architetti siano diventati dei personaggi da un lato non può che lusingare e contribuire allo svecchiamento dell´architettura, ma indubbiamente il pericolo "clown" è in agguato. La mediatizzazione ci sta portando ad un´architettura distorta che diventa autoreferenziale e dimentica l´interesse collettivo, si spinge troppo verso la spettacolarizzazione. Io ho rapporti sereni con tutti ma ritengo che nessuno di noi possa avere la verità in tasca, a me interessa quel che succede nel mondo ma non ho la pretesa di avere grandi certezze. Insomma, l´importante è sapere di non poter cambiare il mondo ma, invece, provare a cambiare l´architettura».