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 2010  ottobre 24 Domenica calendario

STEPHEN KING LA FABBRICA DELL’ORRORE

La premiata fabbrica dell´orrore "King & Famiglia" cominciò con un investimento di venticinque centesimi. Era il "quartino" con il quale Ruth King ricompensò il figlio per avere scritto a dieci anni una favoletta per bambini: Il coniglio magico. Come la moneta infilata in un juke-box sapeva scatenare suoni, voci, rimbombi, così la piccola ricompensa di una mamma evocò dalla mente di un bambino chiamato Stephen un sabba di terrori e di orrori, di incubi e di succubi, di adolescenti demoniache e alberghi satanici che dopo sessant´anni, quarantanove libri e cinquecento milioni di copie tradotte in trenta lingue, hanno fatto di questo miope, timido, ex alcolizzato ed ex cocainomane non un candidato al Nobel per la letteratura, ma qualcosa di più. Un "brand", come le orecchie di Topolino o le corna del diavolo.
Talmente identificato con i suoi agghiaccianti personaggi, insieme adorato e detestato per le sue creature, è Stephen King, che un´anziana signora «coi capelli arancioni», ricorda lui, incontrandolo in un supermercato del Maine dove vive, lo aggredì a borsettate accusandolo di averle impedito per anni di dormire. «Perché, se sei tanto bravo con le parole, non scrivi una storia bella e commovente come The Shawshank Redemption (Le ali della libertà) invece di quelle bruttezze?». «Ma... ma... l´ho scritta io», tentò di difendersi King. «Bugiardo», tagliò corto la signora incredula e indignata. Dalla sua fabbrica dell´horror, che oggi possiamo visitare nei dettagli più segreti, potrebbero un giorno uscire fiabe gentili e cantici francescani. Ma per sempre la marca, o il marchio di fabbrica, sarà la paura.
Anche se la produzione letteraria e cinematografica di Stephen King è, per quantità e a volte per qualità, più da stabilimento di automobili di serie che da raffinato carrozziere (scrive almeno dieci pagine ogni giorno, e ha sfornato almeno un libro all´anno dal primo pubblicato nel 1973, Carrie) il mondo nel quale vive e lavora tra le abetaie e le coste rocciose del Maine è in realtà, più che fabbrica, un laboratorio. Ora che un autore americano, Bev Vincent, lo ha raccontato e ricostruito in un minuzioso studio illustrato (Tutto su Stephen King, martedì in uscita in Italia per Sperling & Kupfer) arricchito da copie di manoscritti, correzioni, appunti sui tovagliolini di carta, foto di lui bambino, si può entrare come mai prima nel mondo interiore di questo dottor Frankenstein del brivido. È possibile ora osservare il processo di concezione e di creazione dei suoi cani mostruosi, dei suoi cimiteri di zombie, delle fan dementi. Spiare come la vita di questo sessantatreenne - King è del 1947 - si attorcigli e si dipani nelle sue creature a volte troppo credibili, per non essere davvero spaventose.
Poiché in ogni pagina di qualsiasi autore, in ogni fotogramma di regista o pennellata di pittore c´è sempre la traccia di chi l´ha prodotta, la visita nella fabbrica laboratorio del "King of Horror" offre molte, ovvie suggestioni. La prima, sulla quale lui preferisce sorvolare, ci porta all´anno 1950 quando lui, bambino di neppure tre anni, diede il rituale bacino sulla guancia del padre che era uscito la sera «a comperare la sigarette» e che, come nelle barzellette più tristi, non rientrò mai più. Divenne un orfano bianco, senza neppure il relativo, ma definitivo, conforto della morte, abbandonato nella dissolvenza infinita di un rifiuto cosciente insieme alla madre, Ruth, e al fratello adottivo, il più grande. Tre anni sono troppo pochi per ricordare, ma abbastanza per avvertire il vuoto di un´assenza che si fa concreta con il trascorrere del tempo. E otto anni sono abbastanza per capire che cosa era accaduto a un compagno di scuola nell´Indiana, dove la madre aveva traslocato inseguendo lavori d´occasione per mantenere i due figli, che aveva giocato a rincorrere un treno merci e ne era stato maciullato.
Lui nega, rifiuta ogni associazione fra la scoperta della crudeltà deliberata o casuale della vita e le sue creature maligne, ma nella fabbrica ci sono sparsi a terra troppi rottami, troppi utensili spezzati per potergli credere davvero. Stephen era un bambino, e soprattutto un teenager, parecchio bruttarello, afflitto da una miopia che lo costringeva dietro occhiali montati in nero - i soli che la madre potesse permettersi - e spessi come fondi di bicchiere, sopra un viso da dork, come dicono crudelmente i ragazzi, da secchione, da perdente, tagliato da un folto sopracciglio nero e continuo come la indimenticabile Mariangela, la figlia del ragionier Fantozzi. È dunque difficile non riconoscere in Carrie, la ragazzina rifiutata e umiliata dai coetanei che si vendica ferocemente dei suoi tormentatori con i propri poteri soprannaturali, qualcosa di quell´adolescente infelice, ignorato dalle compagne in fiore, che aveva trovato nella scrittura e nel foglio di carta - diresse il giornalino del liceo - la rivincita e il rifugio inattaccabile.
Carrie fu il suo primo romanzo pubblicato da Doubleday e amorevolmente curato da un redattore della casa editrice, quel Ben Thompson che avrebbe poi scoperto e imposto John Grisham, con un anticipo sui diritti di duemilacinquecento dollari. Poca cosa anche nel 1973, abbastanza soltanto per acquistare un orrida Pinto Ford usata che si affrettò a perdere per strada la cinghia di trasmissione due giorni più tardi. Quei duemilacinquecento dollari sarebbero divenuti, pochi mesi più tardi, i cinquecentomila dell´edizione economica in paperback e poi gli ormai incalcolabili milioni che lui lascia in deposito presso gli editori che glieli investono, ricevendo un assegno annuale, oggi, di cinquecentomila dollari, per evitare le tasse e rimandarle alla vecchiaia con aliquote più basse. Ma se in Carrie c´è il King ragazzino, anche in Shining, nel personaggio del padre della famiglia Torrance che approda nell´hotel del Colorado chiuso per l´inverno e viene risucchiato dalla forza diabolica del luogo, c´è lui, l´autore. La figura del padre, che Kubrick affidò all´immenso Jack Nicholson per il film, è nel film un alcolizzato, come lo era, per sua ammissione, King in quel periodo della vita. E proprio in un albergo prossimo alla chiusura, tra i monti del Colorado, aveva trascorso una notte la famiglia King, cercando uno dei bambini che si era perso nella vuota immensità di un palazzone dove loro erano gli unici ospiti. E, quasi a voler lasciare un altro indizio, nella parte del direttore dell´orchestra spettrale, c´è proprio l´autore. Stephen King.
Nel cimitero degli animali zombie di Pet Sematary, una storpiatura dell´ortografia corretta, «Cemetery», scritta da un bambino sopra un autentico cimitero per «pets», per animali domestici, era stato sepolto pochi giorni prima di scrivere il romanzo, il gattino di famiglia, misteriosamente morto tra la disperazione dei bambini. Per scrivere uno dei suoi romanzi più belli, Il miglio verde, l´ultimo tratto di strada che il condannato a morte percorre, pretese di sedersi su un´autentica sedia elettrica, di essere incappucciato come lo sono le vittime, per nascondere ai testimoni lo spettacolo della testa che fuma e prende fuoco sotto l´effetto della scariche. «Se avessi potuto farmi investire dalla corrente senza morire, lo avrei fatto», disse. In Misery, la storia dello scrittore salvato e poi torturato da una fan che lo vuole possedere nella sua desolata solitudine, le allusioni sono persino troppo ovvie. È il tuo lettore, il tuo tifoso, il tuo spettatore che ti nutre, ti salva dalla miseria degli inizi, quando la moglie, Tabitha, recuperava dalla spazzature le pagine che lui buttava dopo il rifiuto degli editori, ma ti avvinghia e alla fine ti consuma. Lo dice la dedica del libro, fatta a tre sconosciuti dai nomi generici che «sanno perché lo dedico a loro, ahi come lo sanno».
Non è una fabbrica luminosa, un atelier da pittore bohémien il luogo dove ci porta la visita, come non c´è molta luce, se non per qualche forzato happy ending appiccicato alla fine dei romanzi, per far contento il pubblico e l´editore. Non c´è la luce della fede religiosa, che King confessa di non possedere anche se un tempo pronunciava sermoni domenicali per una chiesetta metodista. «Rispetto chi crede, ma il potere della religione sulle menti più deboli, la sua capacità di corruzione mentale mi spaventa», osa dire. «I fondamentalisti di ogni fede sono squilibrati, spesso convinti di possedere o di avere testimoniato fenomeni paranormali, miracoli, eventi psichici». Non riesce a vedere una razionalità, una coerenza negli eventi umani «forse perché siamo troppo vicini alle cose» e proprio lui, angoscioso cantori di morti che tornano, non crede nell´altro modo e certamente non nei ritorni. La madre, quella che aveva fatto partire il juke box dell´horror con i 25 cents, morì pochi giorni prima della pubblicazione del suo primo libro, Carrie. «Una sera in un albergo di Londra chiesi al concierge di trovarmi un angolo tranquillo dove lavorare e lui mi portò in un studiolo dove c´era una vecchia scrivania. Ci lavorai freneticamente per tutta notte e al mattino mi disse con un sorrisetto: era la scrivania sulla quale Rudyard Kipling morì di emorragia cerebrale, lavorando tutta la notte».
Su uno dei suoi tavoli da lavoro c´è soltanto una traccia, un segno che dietro questo industriale della paura c´è quel bambino aggrappato al solo amore vero che abbia conosciuto, quello per Tabitha, la moglie incontrata all´università del Maine, quarantatré anni or sono. «La morte non mi interessa - scrive - sbatti le palpebre e te ne vai. Quello che mi interessa è sapere come possa l´amore sopravvivere alla morte, come so che il mio per te, Tabitha, sopravviverebbe». Anche nella fabbrica più cupa, c´è un angolo luminoso.