Luca Fazzo, il Giornale 24/10/2010, pagina 1, 24 ottobre 2010
«Non sono comunista» E lo chiamano matto... - Quando gli va malissimo, lo menano: « Dos anos atras un tipo me ne diede tante ma tante, quasi mi spaccò una costola »
«Non sono comunista» E lo chiamano matto... - Quando gli va malissimo, lo menano: « Dos anos atras un tipo me ne diede tante ma tante, quasi mi spaccò una costola ». Quando gli va male lo prendono in giro: «Non sei comunista? Peggio per te». Quando gli va un po’ meglio lo guardano come un matto e gli sorridono, e qualcuno a volte gli dice anche «bravo». Quando proprio proprio gli va bene, gli buttano qualche monetina nel vasetto di plastica che Busco porge per la sua questua. Piero Busco è, tecnicamente parlando, un mendicante. Vive di elemosina. Il suo posto, conquistato da anni e verosimilmente difeso con la necessaria determinazione, è potenzialmente redditizio: corso Venezia, nel cuore di Milano, davanti all’entrata del seminario arcivescovile, poco dopo le vetrine di Armani e quasi davanti a quelle di Dolce e Gabbana. Insomma, Busco potrebbe starsene là tranquillo, magari ostentare qualche malattia, commuovere in qualche modo i passanti. Invece, da tre anni, Busco si è messo un cartello al collo. Il cartello dice «Non sono comunista». Le parole, Busco dice di averle scelte con cura: «Non ho scritto che il comunismo mi fa schifo, non ho attaccato, non ho insultato. Ho parlato di me stesso: io non sono comunista. Tutto qui». Non puzza di vino. Parla in un buffo miscuglio di italiano e di spagnolo, «perché ho viaggiato tanto, facevo l’imbianchino, il cameriere, quello che capitava. Ero un trabajadore indipendente ». Dietro quel cartello - per apodittica che possa apparire la dichiarazione - c’è un ragionamento, che viene spiegato sinteticamente sul retro: «Il capitale crea ricchezza materiale». Sono le 17.30 di un sabato pomeriggio d’autunno, e la ricchezza materiale creata dal capitale invade i marciapiedi intorno a Busco, scintilla dalle vetrine, ingolfa il corso sotto forma di Suv e di Porsche. Sarebbe bello ragionare con Busco delle contraddizioni e delle asprezze che il capitale porta con sé. Ma lui ha lo sguardo chiaro di chi ormai la sua idea se l’è fatta, e non vuole convincere ma nemmeno essere convinto. Alle sue spalle, l’entrata massiccia del seminario. Che rapporto ha con i preti? «Ogni religione ama soltanto quelli che la condividono. Più della religione mi interessa la spiritualità». «Sono un luchador , un lottatore. Non mi arrendo», dice Busco, e solo lui sa a cosa non intende arrendersi: se al freddo che incalza, all’indifferenza della gente, agli sguardi di compatimento. «Ma mi diverto a vedere le facce della gente. Perché se Berlusconi dice “non sono comunista” la gente pensa: per forza, è pieno di soldi, perché dovrebbe essere comunista? Invece mi guardano, e vedono quello che sono: un poveraccio. E non gli tornano più i conti». Accanto a sé, per terra, ha un altro cartello che spiega un po’ il suo essere luchador . C’è scritto: «È vero. Ho 63 anni, non percepisco nessun contributo. Andiamo avanti». Andare avanti per Busco vuol dire vivere qua e là, dormendo all’aperto, oppure «ogni tanto, quando ho abbastanza soldi, faccio una notte in una pensione a poco prezzo». Non si lamenta di come la vita l’ha trattato, scaraventandolo di qua e di là, tra un lavoro e un altro, una città e un’altra, un dialetto e l’altro. Una sola ingiustizia sembra stargli sul gozzo, che è il fatto di non poter votare: « Perché no tiengo una casa, e quindi neanche un indirizzo e senza indirizzo non mi fanno votare. Se fossi Silvio, farei un decreto esplicativo di quelli che fa lui solo per dire ho diritto di votare anche se sono un poveraccio ». Se fosse zoppo, o fingesse di esserlo, magari raccoglierebbe più soldi. Ma nel suo cartello si limita dire ciò cheè: o, più precisamente, ciò che non è. «Non sono comunista». Ma, come direbbe il vecchio Brecht, «la verità non commuove mai».