Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  ottobre 25 Lunedì calendario

Stevenson l’isola delle rime - Un libro di Kate Greenaway, Birthday Books for Children, che gli capitò tra le mani nel 1881, stimolò Robert Louis Stevenson a comporre anche lui rime e versi destinati ai piccoli

Stevenson l’isola delle rime - Un libro di Kate Greenaway, Birthday Books for Children, che gli capitò tra le mani nel 1881, stimolò Robert Louis Stevenson a comporre anche lui rime e versi destinati ai piccoli. Erano gli anni del suo sodalizio con Lloyd Osbourne, il figlio già grandicello di sua moglie, sodalizio dal quale sarebbe nato L’isola del tesoro. A differenza però di quel capolavoro, scritto quasi di getto, la gestazione di A Child’s Garden of Verses - oggi tradotto in italiano da Raul Montanari come Il giardino dei versi (Nutrimenti, pp. 208, e18) - fu lunga e non agevole. Stevenson compose infatti la maggior parte di queste rime giocose e nostalgiche mentre era infermo, così infermo da non potersi dedicare a niente di più impegnativo, a Nizza nell’83 e soprattutto a Hyères nel 1884. In quest’ultima località un attacco di emorragia dovuto alla tisi lo costrinse all’immobilità totale, disteso con il braccio destro legato al torace e al buio per i postumi di un’epidemia di oftalmia egiziana dalla quale era stato colpito. Aveva anche una sciatica, conseguenza della nottata passata ballando intorno a un falò per festeggiare la notizia della condanna per diffamazione a quattro mesi di carcere di Edmund Yates, fondatore della stampa scandalistica. Stevenson scriveva dunque a letto, al buio e con la sinistra. Non doveva neanche parlare, e ci sono aneddoti sulle risposte che dava per iscritto ai suoi visitatori. A uno che gli domandava se il silenzio forzato gli pesasse, rispose, pare, «Ma questa è la mia vocazione!». In questa condizione quasi di morto vivente il futuro autore del Dottor Jekyll si mise a rievocare serenamente, tra sé e sé, la propria infanzia. Del risultato il suo biografo più irriverente, Richard Aldington, avrebbe detto che è riuscito solo a metà: Stevenson cerca di ritornare bambino e di scrivere come un bambino, ma è un bambino, secondo Aldington, troppo colto e troppo raffinato, un bambino che ha letto Milton e Blake, e che quindi, invece di stabilire una complicità coi potenziali lettori infantili, li intimidisce. Può darsi, il riscontro oggi non è possibile, il pubblico infantile è troppo cambiato rispetto all’epoca vittoriana. Alice nel paese delle meraviglie è ormai un libro per adulti, repertorio di archetipi per psicologi; ma anche la grazia con cui lo Stevenson cresciuto recupera momenti, rivelazioni, slanci, incanti e fantasticherie del proprio passato remoto è fatta per essere apprezzata più da chi ha vissuto qualcosa di analogo che da chi lo sta vivendo. È un libro insomma che, rivolgendosi ai bambini, aiuta in realtà gli adulti a capire i bambini, appellandosi a quel bambino che ogni adulto è stato. Alcune poesie rievocano piccoli episodi dell’infanzia, come il puntuale passaggio del lampionaio che accendeva i lumi a gas a Heriot Row. Molte, forse le più, parlano dell’immaginario del bambino, non senza materiale che fa pensare all’Isola del tesoro: giochi con pirati, avventure, peripezie, animali feroci, evocati con gli oggetti della cameretta, due seggiole rovesciate, un cesto che fa da imbarcazione; nel «Bel paese del gran copriletto» il protagonista è malato e se ne sta tra due cuscini circondato dai suoi giocattoli, a far marciare i soldatini lungo la coperta, e navigare una flotta sulle lenzuola, gigante sopra il paese che momentaneamente domina. Il componimento emblematico della capacità onirica del fanciullo, sempre citato dagli psicologi dell’infanzia, è «The Land of Nod», «Il regno dei sogni» nella versione di Mantovani: «Da colazione in poi, per tutto il dì / con i miei cari amici resto qui, / ma ogni notte, e dico proprio ogni, / mi spingo lontano, nel regno dei sogni. / Solo soletto io ci devo andare, / senza nessuno a dirmi cosa fare: / tutto solo cammino lungo i fiumi / e salgo in cima ai monti, senza funi...». Un traduttore precedente e illustre (Francesco Saba Sardi, Mondadori 1987) l’aveva chiamato «La terra di nanna» e se l’era cavata così: «Da colazione in poi, per tutto il giorno / a casa sto con gli amici che ho intorno. / Ma la notte oltre i monti soglio andare / nella terra di Nanna a ramingare. / Tutto solo mi tocca lì aggirarmi, / senza nessuno la strada a insegnarmi. / Solingo vado lungo i fiumi e i rivi / e salgo i colli dei sogni sorgivi...». Scegliete voi. Rispetto a quella edizione, l’odierna è impreziosita da deliziose illustrazioni liberty di Charles Robinson (1895), dai testi originali in appendice, e da contributi di Paulo Mauri, Filippo Tuena e del traduttore stesso.