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 2010  ottobre 24 Domenica calendario

“Morire per Baghdad? Oggi no” - Simona Torretta ha la stessa voce grave e un po’ malinconica di quando sei anni fa ripeteva alla saturazione la dinamica dei suoi ventuno giorni di prigionia ai cronisti assetati di dettagli

“Morire per Baghdad? Oggi no” - Simona Torretta ha la stessa voce grave e un po’ malinconica di quando sei anni fa ripeteva alla saturazione la dinamica dei suoi ventuno giorni di prigionia ai cronisti assetati di dettagli. Ma non ha più voglia di parlare al passato. «Non mi sono stancata dell’Iraq, mi sono staccata» spiega la trentacinquenne ex volontaria di «Un ponte per...» rientrando in treno da Milano a Roma, dove vive ancora accanto alla mamma Annamaria e le sorelle minori Emanuela e Laura. L’attualità incalza: la formazione del nuovo governo di Baghdad, il disimpegno americano firmato Barack Obama, le rivelazioni scottanti di Wikileaks. Lei però, giura, è lontana. O almeno ci prova: «Continuo a lavorare con la cooperazione e andare in giro, ma non sono più tornata lì. Nel frattempo ho smesso anche di rilasciare interviste, è prioritario per me, le persone tendono a ricordarti in un unico modo». L’immagine delle due Simone con le tuniche lunghe fino ai piedi che arrivano a Ciampino accompagnate dal commissario straordinario della Croce Rossa Scelli è di quelle destinate a sopravvivere alla cronaca nazionale. Era il 28 settembre 2004, anno secondo della guerra irachena combattuta dall’esercito italiano tanto quanto avversata nelle piazze di Roma, Milano, Torino. Il terrorismo che qualcuno chiamava resistenza aveva già ucciso i militari di Nassiriya, il «contractor» Fabrizio Quattrocchi, il giornalista Enzo Baldoni e nel giro di pochi mesi sarebbe tornato a colpire sequestrando la collega del Manifesto Giuliana Sgrena e prendendosi, macabro pegno per la sua liberazione, la vita dello 007 Nicola Calipari. Il ritorno a casa delle due ragazze, accolto dal governo a loro inviso e da un sospiro di sollievo bipartisan, anticipava già in qualche modo l’addio alle armi prossimo venturo. «Sono andata avanti. Mi sono riscritta all’università dove avevo fatto antropologia, sto finendo una sorta di corso di specializzazione in geopolitica» continua Simona Torretta. L’amica e coetanea Simona Pari vive all’estero, irraggiungibile. Lei va in missione abbastanza spesso, è appena stata «al nord», esplora mete diverse dalla diletta Terra dei Due Fiumi cui dedica ormai solo viaggi mentali: «Nel 2008 ho collaborato alla scrittura di un testo teatrale su Falluja con Francesco Niccolini, l’autore che lavora con Marco Paolini. E’ stato messo in scena dal teatro Stabile di Udine, ha avuto una buona accoglienza. Ora vorremmo riproporre lo spettacolo in una versione ridotta con tre soli attori, ma la prospettiva resta la stessa, uno sguardo sul passato e non sul presente». Non vuole parlare dell’Iraq, Simona Torretta. Eppure la ritrosia tradisce la tensione irrisolta di un vecchio amore. Per sua stessa ammissione, un ricordo ripetuto all’infinito all’indomani della liberazione, Baghdad l’aveva sedotta subito: «Era il 1994 e avevo 19 anni quando sono stata per la prima volta in Iraq per un viaggio di conoscenza culturale. Quella esperienza mi ha segnato, promisi ad alcune famiglie che mi sarei preoccupata di far avere loro dei medicinali, che mi sarei data da fare». Detto fatto. Due anni dopo questa entusiasta neodiplomata all’istituto di Belle Arti orfana di padre e risoluta come una nata sotto il segno concreto del Toro bussa alla porta dell’associazione «Un ponte per...»: c’è bisogno di una volontaria? L’embargo internazionale contro il regime di Saddam Hussein tiene la popolazione sotto scacco e la risposta è scontata: nel giro di una manciata di mesi Simona Torretta si ritrova nella capitale irachena, 1.500 euro di stipendio e la responsabilità di un duplice progetto per la ricostruzione della biblioteca e il ripristino delle attività scolastiche. A ripensare adesso quanto le sembrasse scontato pendolare tra Roma e Baghdad nei cinque anni precedenti al rapimento può intuire la differenza tra leggere la Storia ed esserne protagonista. E chissà che con il senno di poi non preferisca la prima opzione. Ma per capire è sempre necessaria una certa distanza di sicurezza. A questo punto il silenzio autoimpostosi di Simona Torretta si sovrappone alla sua memoria moltiplicata dalle interviste di ieri fino a diventare collettiva: «Nel gennaio del 2003 arrivo in Italia quando già si sentono i venti di guerra. La gente laggiù fa già incetta di zucchero, sapone, olio, farina, pane. Ci si prepara al peggio. In cuor mio avevo già deciso di tornare in Iraq per la guerra. Mi hanno chiesto e mi sono chiesta spesso perché. Non ho una risposta. In quel momento mi sembrava la cosa più naturale». Lo era? Probabilmente no per mamma Annamaria, che avrebbe scontato l’intraprendenza della figlia con ventuno giorni e ventuno notti d’inferno, incollata alla tv al sesto piano della palazzina in via dei Salesiani, a Roma. Qualcuno, in seguito, ha perfino ipotizzato che la ragazza fosse in procinto di abbracciare la religione del Profeta Maometto, ma lei si è sempre sottratta: «Ho studiato l’arabo. Studio l’Islam e voglio ancora approfondirlo. E’ una curiosità intellettuale. Non ho nessuna intenzione di convertirmi». L’Iraq è la vita precedente, le veglie all’hotel Fanar sotto i bombardamenti, la ricostruzione, la prigionia, la libertà e la cittadinanza onoraria assegnata dal Comune di Crevalcore. «Non sono nella dimensione giusta per rispondere a domande sull’Iraq, mi sento ovattata, sto prendendo decisioni importanti per il mio futuro» insiste Simona Torretta. Non ha accettato neppure di mettere la sua esperienza al servizio di un progetto tecnico sulla sicurezza e sui rapimenti: «Ho bisogno di staccare». Sono trascorsi sei anni, tanti, pochi. C’è stato un momento, nei mesi successivi alla liberazione, in cui le due Simone, protagoniste della scena mediatica, affermavano di voler tornare in Iraq «ma non subito, occorre attendere la fine dell’occupazione americana». Ci siamo quasi. La bandiera a stelle e strisce potrebbe essere ammainata presto all’orizzonte sul fiume Tigri. Ma a Simona oggi non interessa il passato.