Armando Massarenti, Il Sole 24 Ore 24/10/2010, 24 ottobre 2010
CINA, LA PIÙ ANTICA INNOVATRICE (VEDI
anche frammento 1393982) -
Chiunque oggi abbia letto Orientalismo di Edward Said o, meglio ancora, L’altra India di Amartya Sen – quella scettica, illuminista, razionale e da sempre dialogante con la Cina – difficilmente cadrà nello stereotipo idealisticheggiante, alimentato non solo dai sinologi occidentali ma dalla stessa classe intellettuale-burocratica della vecchia Cina, che ci ha impedito di vedere in che misura gli ingredienti della modernità fossero il frutto di un fitto scambio culturale tra Oriente e Occidente, coltivato per secoli e intensificatosi a partire dal Medioevo. Ma se si vuole capire davvero quanto radicato fosse – e ancora è - quello stereotipo, e quanto sia profondamente falso, non si può prescindere dall’immensa opera di un biochimico di Cambridge, Joseph Needham, Scienza e civiltà in Cina, il cui primo volume uscì nel 1954.
È forse irrealistico aspettarsi a breve una ristampa della splendida edizione Einaudi del 1981. Dunque è il caso di tuffarsi nella biografia di Simon Winchester, L’uomo che amava la Cina, in libreria nei prossimi giorni per Adelphi.
Nato il 9 dicembre del 1900, unico figlio di un medico e di una madre dal temperamento artistico, il giovane Joseph studia biochimica al Caius College, dove si svolgerà tutta la sua vita accademica, fino a diventare rettore dal 1966 al 1976. Nel 1931 pubblica Chemical Embryology e nel 1942 Biology and Morphogenesis. Ma nel frattempo la parte più avventurosa del sua vita è già decollata. Comunista, nudista ante litteram, danzatore di balli folkloristici inglesi, fotografo, è sposato con Dorothy, biochimica come lui. E come la sua amante, Lu Gwei-Djen, che con la moglie fu sempre legata da stretta, reciproca amicizia. Lei era arrivata negli anni Trenta a Cambridge con altri due biochimici cinesi. I tre «pur ripartendo da Cambridge arricchiti di nuove conoscenze, vi lasciarono la preziosa convinzione che la civiltà cinese aveva avuto un ruolo vasto e importante, benché ancora misconosciuto, nella storia delle scienza e della tecnologia». Da lì nacque l’impresa, costellata di viaggi e di complesse missioni diplomatiche, compreso un soggiorno continuativo in Cina dal 1943 al 1948, fra l’invasione giapponese e la Rivoluzione maoista, e con un incarico nel dopoguerra a Parigi presso l’Unesco, che lo porterà ad accumulare una massa ingente di documenti, mai visti prima in Occidente, sulla Cina antica e moderna, e a progettare e scrivere quello che lui e i suoi collaboratori chiamavano semplicemente "il libro". L’accordo con la Cambridge University Press era, infatti, per un solo volume. Poi, mano a mano, diventarono sette, di cui uno composto di tre parti. I tomi finora usciti sono 24 e l’opera continua, anche dopo la morte di Needham, avvenuta nel 1995, con i suoi allievi e collaboratori grazie all’impegno costante del Needham Research Institute.
Una vita avventurosa, ricca, intensa, rivoluzionaria, anticonformista quella di Needham, ma animata da equilibrio intellettuale, pazienza, meticolosa raccolta e catalogazione di documenti, nella consapevolezza di aver vinto una difficile scommessa. «Quale scrigno di tesori inestimabili abbiamo aperto! I miei amici sinologi della vecchia generazione dicevano che non avremmo trovato niente: come si sbagliavano! Una dopo l’altra, nei testi letterari, nei reperti archeologici, nell’iconografia, sono emerse chiaramente invenzioni e scoperte straordinarie, spesso, anzi quasi sempre, precedenti di molto le invenzioni e le scoperte europee parallele o derivate».
Needham aveva in mente le memorabili parole rivolte dall’imperatore Qianlong a Lord Macartney durante la sua visita nel 1792: «Possediamo già tutto ... Non so che farmene dei manufatti del vostro Paese». Sono le stesse che, oggi che la Cina è diventata una grande potenza, vengono spesso citate come segno di una irritante arroganza. Per Needham andavano prese candidamente alla lettera. Questo era rivoluzionario. Mostrare, punto per punto, invenzione per invenzione, quanto erano semplicemente vere. Si trattava, scrive Winchester, di «stabilire un catalogo certo delle cose create dai cinesi per primi, delle idee e dei concetti ora usati in tutto il mondo che avevano avuto origine nel Regno di mezzo». Le prove e i fatti arrivarono, copiosi e circostanziati. Nella medicina, nella matematica, nell’astronomia. «Si trattasse della tavola dei coefficienti binomiali, del metodo standard di interconversione del moto rotatorio e longitudinale, del primissimo sistema di scappamento per gli orologi meccanici, del primo vomere in ghisa malleabile, degli inizi della geobotanica e della scienza del suolo, dei riflessi cutaneo-viscerali o dell’inoculazione del vaiolo, dovunque guardassimo, scoprivamo una serie infinita di primati cinesi».
Detto questo, resta un grande problema storiografico. Ma se in Cina è stato inventato praticamente tutto, dalla bussola alla stampa alla polvere da sparo (per citare gli esempi che ancora lasciavano perplesso Francis Bacon), perché allora la scienza moderna, e la conseguente rivoluzione industriale e tecnologica, si sono sviluppate altrove? In realtà è un dilemma che non è molto dissimile da quello che spinge gli storici a chiedersi: ma se i greci, i romani e anche la civiltà del Medioevo – come risulta sempre più evidente – possedevano già macchine complesse basate su sofisticate conoscenze matematico-scientifiche, perché abbiamo dovuto aspettare fino al XVII secolo per la rivoluzione scientifica e il XVIII per quella industriale? Che è come dire che tra Oriente e Occidente abbiamo finito per condividere e scambiarci non solo le grandi scoperte e invenzioni ma anche il medesimo mix di dilemmi e perplessità.