Daniela Bifulco, Il Riformista 25/10/2010, 25 ottobre 2010
NEGAZIONISMO ISTRUZIONI PER SMASCHERARLO
«Mal nommer les choses», diceva Camus, «c’est ajouter au malheur du monde». Ovvero: «Dare nomi sbagliati alle cose aumenta l’infelicità del mondo». E poiché il discorso negazionista trae linfa dalle parole - brutalizzandole - dalle parole occorre muovere per evitare di aggiungere infelicità a questa terra. Claudio Moffa, rivendicando la libertà di espressione del pensiero nel corso dell’ormai famosa lezione negazionista di Teramo, stigmatizza la pretesa del sistema di sanzionare un docente per «tesi revisioniste», come accaduto in passato ad alcuni suoi colleghi. Al professore va ricordato (quel che sicuramente saprà, ma che omette coscientemente di specificare e cioè) che nessuno, né in Italia, né altrove, viene punito per aver espresso tesi «revisioniste». Sono le tesi «negazioniste» ad essere sanzionate penalmente (non in Italia, ma nella maggior parte degli Stati europei. Un esempio per tutti: si ricorderà, forse, la condanna di D. Irving a tre anni di reclusione, comminata dalla Corte di assise di Vienna). È tutto fuorché innocente quella qualificazione di «revisionista», servendo invece ad ammantare di scientificità e rigore un discorso delirante. Il negazionismo, al di là delle svariate forme e gradazioni di contenuto con cui si è manifestato, è cosa diversa dal «revisionismo», se è vero che che ogni storico intellettualmente onesto, non disposto a tradire la propria vocazione di studioso, è costretto a essere «revisionista» di fronte all’emergenza di nuove fonti, conoscenze e riscontri che mettano in dubbio precedenti acquisizioni storiografiche.
L’autoqualificazione di revisionista, implicitamente presa in prestito dal professore, ricorda molto da vicino la strategia che portò i primi negazionisti, alla fine degli anni Settanta, a presentarsi come revisionisti. Uno dei motivi per cui essi hanno conquistato l’attenzione di storici, oltre che di media e pubblico, e ciò a dispetto della loro marginalità, va individuato appunto nella loro propensione a usurpare i segni distintivi del modo di procedere scientifico e storiografico e, segnatamente, il dubbio sistematico verso taluni «dogmi», lo spirito critico, la tendenza a verificare (G. Sapiro, in appendice a P. Vidal-Naquet, Les assassins de la memoire, La Découverte, Parigi, 1981, ult.ed., 2005, p. 209). In vista di ciò, molti hanno ritenuto opportuno, da un certo momento in poi, denominare «negazionisti» i sedicenti revisionisti, dato che il loro «revisionismo» mirava non già a contraddire un’impercettibile sfumatura interpretativa legata alla storiografia del regime nazista, bensì a negare ciò che costituiva un evento dimostrato, testimoniato, indiscutibile: l’essenza criminale del Terzo Reich, che si espresse, in primis, attraverso la politica di sterminio degli ebrei.
Pare, ad esser più precisi, che quel «certo momento» dati 1987, almeno per quel che riguarda l’Europa. Per capire meglio quanto scivoloso e ambiguo sia il terreno della (auto)qualificazione del fenomeno negazionista, val la pena scorrere gli atti giudiziari relativi a un processo che ha avuto luogo a Parigi, nel 2007, intentato da Faurisson (proprio quel Robert Faurisson che Claudio Moffa cita nella sua lezione e che avrebbe invitato a un suo master se l’università di Teramo non glielo avesse impedito) contro Rober Badinter e il canale televisivo Arte. Badinter, ex ministro della giustizia francese, venne citato in giudizio per diffamazione e, più precisamente, per aver definito Faurisson, in occasione di un’intervista concessa ad Arte, «un falsario della storia». Tra gli esperti di parte convenuta, figurava un autorevole storico, Henri Rousso, che aveva introdotto il termine «negazionismo» negli anni Ottanta. A Rousso, la difesa chiese se fosse corretto attribuirgli l’origine del neologismo «negazionismo». La risposta fu affermativa e, qui di seguito, ne riportiamo alcuni brani particolarmente utili ai nostri fini: «Salvo errore da parte mia, credo di essere stato il primo a utilizzare quella espressione nell’opera menzionata [La sindrome di Vichy] , nel 1987. Si tratta di un neologismo che ho adoperato con un’intenzione ben precisa. All’epoca, nel dibattito pubblico ci si riferiva costantemente ai “revisionisti”. Ritenni che l’utilizzo di tale terminologia si prestasse a equivoci, e ciò per due ragioni. La prima ha riguardo al fatto che la parola “revisionista” è polivalente e che, quindi, utilizzarla senza attribuirle un senso preciso diventava problematico. In secondo luogo, il discorso sull’Olocausto e sulle camere a gas non costituiva un fenomeno di revisione della storia, bensì un fenomeno di negazione pura e semplice. Occorreva perciò distinguere tra ciò che mi sembrava appartenere al metodo dello storico -e cioè la continua messa in discussione di un certo numero di interpretazioni- dalla mera negazione di eventi appurati. Considerai che il modo di procedere e la natura stessa del progetto proprio non solo del Sig. Faurisson, ma di una certa quantità di autori gravitanti, dal mio punto di vista, attorno all’universo negazionista, non avevano nessun punto di contatto con ciò che usiamo definire “revisionismo storico”. E’ in questo spirito che utilizzai quel neologismo» (La justice et l’histoire face au négationnisme. Au cœur d’un procès, Fayard, Parigi, 2008, pp. 118-9). Pace fatta con Camus: attenti all’uso e all’abuso delle parole.
Un altro aspetto che ricorre nella letteratura negazionista è l’insistenza sulla «scientificità» del loro metodo, puntualmente rievocata nella lezione: citando Faurisson, si afferma che il gas Zyklon B serviva a disinfestare i vestiti dei deportati (o a eliminare i pidocchi: la “dottrina” negazionista è divisa sul punto; si vedano le tesi formulate dallo Institute for Historical Review, nel 1973), non già a sterminarli nelle camere a gas. Non un cenno, intanto, al fatto che la «disinfestazione» non toccò soltanto agli ebrei, ma anche altre categorie di malcapitati, rei ad esempio di essere zingari, o di presentare deficit mentali. Ma, di ciò, i negazionisti non parlano mai: l’omissione è rivelatrice dell’ideologia antisemita sottostante, tesa a rappresentare la Shoah come un’immensa fandonia raccontata al mondo dagli ebrei. Dal punto di vista negazionista, non val la pena, dunque, di indugiare su altre categorie di persone liberate, grazie al Zyklon B, da quei noiosi di pidocchi. L’importante è dimostrare come gli ebrei si siano inventati tutto. In seguito alla dissertazione para-chimica sul Zyklon B, il professore (di scienza politica, non di chimica, è bene ricordarlo) chiosa: «Tutta una serie di questioni assolutamente tecniche che Faurisson svolge in maniera assolutamente conseguenziale e anche convincente». Se lo dice lui...
Verso la fine della lezione, assistiamo al fuoco d’artificio finale, che porta in cattedra la sempiterna tesi del complotto ebraico-sionista ai danni del mondo: fedele seguace del maestro Faurisson, che ha speso una vita a diffondere quella tesi, il professore chiude definendo l’Olocausto come «un’arma ideologica indispensabile attraverso cui una formidabile potenza del mondo, con una fedina terrificante quanto al rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di vittima». Per inciso, e a tal proposito: contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, il mondo negazionista contempla non solo destrorsi accaniti, ma anche seguaci provenienti dalle fila della sinistra estrema: anarco-marxista era la Vieille Taupe, editore che per primo, in Francia, fornì ricovero a pubblicazioni negazioniste.
Incamminandosi, poco prima, su un piano diverso e egualmente tipico dell’argomentazione negazionista (l’inattendibilità delle testimonianze rese a Norimberga, in quanto ottenute sotto minaccia, tortura o intimidazione), il professore afferma che la cifra fornita da Rudolf Hess non è attendibile («impossibile gassare 2000-3000 persone al giorno»). Ma, allora, verrebbe da chiedergli: è comunque vero che si gassavano esseri umani, nei lager, numero più numero meno al giorno? E se anche - in ipotesi assurda - i nazisti ne avessero fatto fuori «soltanto» uno al giorno, cosa cambierebbe? Sul numero delle vittime non ci si è mai messi d’accordo. Ma non è certo questo il punto: peraltro, i primi a mostrarsi disponibili a ridiscutere la cifra delle vittime sono proprio i più accesi critici del negazionismo, come il già citato Vidal-Naquet. È un accanimento particolare quello che spinge i negazionisti a mettere in discussione le testimonianze, soprattutto quelle rese dalle vittime. Da sempre, il discorso negazionista aggredisce la letteratura della testimonianza in uno dei suoi tratti tipici: quel «ritorno a sé», che essa rappresenta, per chi testimonia in seguito a un’esperienza di esclusione dalla storia (sul punto: A. Garapon, Chiudere i conti con la storia. Colonizzazione, schiavitù, Shoah, Cortina, Milano, 2009). Non a caso, il professore afferma che «la memoria è stata incredibilmente sviluppata: gente che non si ricordava di questo fatto, improvvisamente se ne ricorda». Chissà di chi parlava, il prof. Moffa. Peccato non sia stato più preciso: perché quelli che sono stati nei campi di concentramento e hanno potuto far ritorno in genere ricordano. In un certo senso, la loro testimonianza dell’orrore non può essere «completa», appunto perché sono tornati: «Primo Levi ha detto, con una tragicità divenuta carne della sua carne, che non è possibile parlare della Gorgone, perché chi è ritornato non l’ha vista veramente e chi l’ha vista faccia a faccia non è ritornato» (Claudio Magris, il Corriere della Sera, 21.1.2007). In questo senso, e soltanto in questo senso, quelle testimonianze possono dirsi… incomplete.