Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  ottobre 25 Lunedì calendario

STORIA DI ABETE IL SEMPREVERDE DEMOCRISTIANO


Il 2010 è stato l’annus horribilis del calcio italiano, ma il presidente della Federcalcio Giancarlo Abete non sarà mai disposto ad ammetterlo. Parole come «disfatta» o «catastrofe» non appartengono al suo vocabolario. Che resta quello di un prudente e felpato democristiano di lungo corso. Un dc di razza dorotea, addirittura forlaniano, quindi abilissimo nello schivare, sopire, smussare. «Sono cresciuto con Forlani, potrei parlare per ore senza dire nulla», ha detto tempo fa Pierferdinando Casini, un altro discepolo del leader marchigiano che Giampaolo Pansa soprannominò «coniglio mannaro».
Anche Abete, che nel lontano 1979 entrò a Montecitorio come giovane e baffuto deputato dc di area centrista, ha imparato bene la lezione. Sentitelo: «Nulla deve essere interpretato a livello di pessimismo, ma tutto deve essere valutato a livello di confronto realistico sulle situazioni attuali». Una frase passe-partout. Da tenersi in tasca per tutte le occasioni. Valida per un congresso di partito, per un intervento alla Camera o anche per commentare, come in questo caso, l’eliminazione della Nazionale italiana dai mondiali di calcio in Sudafrica.
Furono in molti, in quei giorni, a chiedere le dimissioni di Abete. Gli chiesero di mollare la poltrona anche due ministri, Calderoli e Ronchi, ma Abete decise di restare al suo posto. «Farò tutto quello che è utile per il calcio italiano», disse, «come penso di aver fatto, sbagliando anche alcune volte, ma in buona fede. Non sono persona legata alla logica della poltrona. Rispondo con serenità in primis alla mia coscienza, alla base che mi ha eletto e alla responsabilità di far ripartire il sistema calcio. Se il problema delle mie dimissioni è legato alla scelta di Lippi, non si pone perché l’individuazione del commissario tecnico è una scelta legittima del presidente federale».
Era la fine di giugno e pareva uno dei punti più bassi toccati dal calcio italiano nella sua storia, con la Nazionale eliminata al primo turno dei mondiali, così come era successo nel 1974 in Germania. Invece non era ancora il fondo. La data funesta da segnare sul calendario è il 12 ottobre. Ma non tanto per l’osceno spettacolo offerto a Marassi dai lanzichenecchi tatuati e ubriachi giunti dalla Serbia. Lì la Federcalcio non c’entra. E’ stato un problema di ordine pubblico. Il vero dramma del calcio italiano è stato nel pomeriggio di quello stesso giorno, a Borisov, in Bielorussia.
Borisov si trova sulle rive della Beresina, il fiume dove nel 1812 Napoleone subì una memorabile disfatta contro l’esercito russo. La nostra Beresina è stata la sconfitta della Nazionale Under 21 contro la Bielorussia. Un 3 a 0 con il quale l’Italia ha buttato via due qualificazioni: per l’Europeo 2011 e per le Olimpiadi di Londra nel 2012. L’ultima volta che l’Italia aveva mancato la qualificazione olimpica era stato nel 1980. Un altro 3 a 0, questa volta subìto dalla Spagna, a fine luglio aveva sbattuto fuori dai campionati europei gli azzurrini della Nazionale Under 20. Una sconfitta che, tra l’altro, ha chiuso all’Italia le porte di ingresso ai prossimi campionati mondiali Under 20.
Queste eliminazioni bruciano e forse fanno ancora più male della batosta vissuta in Sudafrica. La disfatta delle nazionali giovanili significa che il calcio italiano ha un futuro incerto e che l’intero movimento calcistico italiano vive una crisi profonda. Il Corriere della Sera ha fatto un confronto sui minuti giocati in campionato dagli azzurrini dell’Under 21 e i loro coetanei della nazionale spagnola, che naturalmente andranno agli europei (hanno messo sotto per 3 a 0 la Croazia). Gli italiani hanno giocato, fra serie A e B, solo 1.967 minuti. Gli spagnoli, quasi tutti titolari nei propri club, 4.570 minuti. Significa che il calcio italiano non dà spazio ai giovani.
La disfatta in Bielorussia costerà il posto al commissario tecnico Gigi Casiraghi, ma Giancarlo Abete non ha fatto una piega. Nonostante la velenosa frecciata che gli ha scagliato contro Marco Tardelli, ex campione del mondo dell’Italia di Bearzot, ex tecnico della Under 21 che nel 2000 vinse gli europei e oggi vice di Trapattoni sulla panchina dell’Irlanda. «Poveri talenti, in mano ad Abete», ha detto Tardelli,. Gli ha replicato con una bacchettata il presidente del Coni Petrucci :«Sparare su Abete è stata una caduta di gusto e di stile».
Su Abete non si spara. E sarebbe anche ingiusto incolparlo di tutti i mali del calcio italiano. Ma resta da chiedersi se Abete è l’uomo più adatto a guidare il calcio italiano in questo difficile momento. Forse ci vorrebbe un rivoluzionario. Abete invece è un grande mediatore, prudente, moderato, equilibrista.
Queste sue doti gli hanno consentito di galleggiare indenne fra la prima e la seconda Repubblica. Senza mai affondare. Giancarlo Abete, allo stesso modo di Franco Carraro, è riuscito a muoversi con abilità su tre campi: quello dell’imprenditoria, della politica e dello sport. Ed è riuscito a farlo, onore al merito, senza mai restare impigliato in scandali o disavventure giudiziarie.
Ha compiuto sessant’anni il 26 agosto. Nell’Italia dei gerontocrati, va ancora considerato un giovane. E ha già fatto un sacco di cose. Insieme al fratello Luigi (già presidente della Confindustria e oggi presidente della Bnl) ha ereditato l’azienda di famiglia. Si chiama A.be.te. Non è solo un cognome con i puntini. Significa Azienda beneventana tipografica editoriale. La fondò nel 1946 Antonio Abate, padre di Luigi, Giancarlo e Antonella. Arrivato a Roma da Benevento nel 1929, Antonio Abate cominciò a lavorare come correttore di bozze al Poligrafico dello Stato. Nel dopoguerra acquistò per 12 mila lire un terreno di 20 ettari sulla via Prenestina e attrezzò un capannone a tipografia. Per anni gli Abete hanno stampato anche le schedine del Totocalcio e le schede elettorali.
Lì, al Prenestino, Giancarlo Abete è nato e cresciuto. Ma presto ha spiccato il volo dalla periferia. Ha studiato al Liceo Massimo, scuola esclusiva dei Gesuiti che ha avuto fra i suoi allievi anche Mario Draghi e Luca Cordero di Montezemolo. Poi è arrivata la laurea in scienze economiche e commerciali. Insieme al fratello Luigi, dopo essersi fatti le ossa nell’azienda di famiglia, hanno cominciato a guardare lontano. Nel 1978 Luigi diventa presidente dei giovani industriali di Confindustria. L’anno dopo Giancarlo, a 28 anni, viene eletto alla Camera dei deputati. Ha raccontato di essere stato trascinato nell’avventura politica dagli hiltoniani, un gruppo di amici e imprenditori legati a Umberto Agnelli che si erano riuniti per la prima volta all’Hotel Hilton.
Per la campagna elettorale Abete tappezza Roma con dei manifesti in cui compaiono solo alberi, naturalmente abeti. «Poi quando tutti si erano convinti che fosse una campagna ambientalista, feci comparire il nome e il numero in lista», ha raccontato a Vittorio Zincone. Abete entra in Parlamento eletto nel collegio Roma-Viterbo-Latina-Frosinone, insieme a storici personaggi della Dc laziale come Giulio Andreotti, Franco Evangelisti, Giovanni Galloni, Mauro Bubbico e Clelio Darida.
Abete si farà a Montecitorio tre legislature di seguito, fino al 1992. Ogni tanto il suo nome, insieme a quello del fratello, spunta fuori quando c’è da scegliere un candidato sindaco per Roma. Ma Giancarlo Abete preferisce assumere incarichi nelle associazioni di rappresentanza degli imprenditori capitolini e, nel frattempo, pone le basi della sua carriera di dirigente sportivo, anche se il calcio l’ha giocato solo nella nazionale parlamentari. Nel 1987 Antonio Matarrese, altro democristiano, lo chiama a dirigere il settore tecnico della Federcalcio. Poi guida la Lega di Serie C. Tenta la scalata alla presidenza della Figc nel 2000 e nel 2004, ma un gioco di veti gli sbarra la strada. Nel 2006 è capo delegazione nella spedizione vincente ai mondiali di calcio in Germania. Viene eletto presidente della Figc il 2 aprile del 2007 dopo il periodo di commissariamento della federazione gestito da Luca Pancalli. Abete ha il compito di lasciare alle spalle di anni cupi di calciopoli. Non è un volto nuovo, ma almeno ha le mani pulite. Promette, naturalmente, di essere il presidente di tutti. Cita addirittura Paolo VI: «Non abbiamo bisogno di maestri, ma di testimoni». Tutto bello. Tutto giusto. Ma forse il calcio italiano avrebbe anche bisogno di vittorie.