Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 24/10/2010, 24 ottobre 2010
LE RISATE MALINCONICHE DELL’UMORISMO EBRAICO
In riferimento alla barzelletta sugli ebrei di Berlusconi, un lettore le ha scritto che sono un popolo, oltre che intelligente, anche «spiritoso» e lei ha parlato di witz ebraici. Siamo sicuri?
Adele Sacchi, Firenze
Cara Signora, un geniale editore dei primi decenni del Novecento, l’ebreo modenese Angelo Fortunato Formiggini, creò una collana editoriale e la intitolò «Classici del ridere». Ma il riso che piaceva a Formiggini era, con qualche eccezione, quello colto e moraleggiante della grande tradizione letteraria europea, da Petronio a Boccaccio, da Rabelais a Cervantes, da Diderot a Voltaire, da Dickens a Oscar Wilde. Per la verità non ho mai avuto l’impressione che gli ebrei sefarditi, eredi di quelli che avevano lasciatola Spagna nel 1492, fossero mediamente più spiritosi dei loro concittadini cattolici o protestanti. L’umorismo ebraico (quello di Groucho Marx e Woody Allen, tanto per intenderci) nasce nelle comunità askenazite in Polonia, fiorisce nel «recinto» (la zona ucraina, bielorussa e moldava riservata agli ebrei nell’impero zarista), parla yiddish, si diffonde nei cabaret dell’Europa centro-orientale ed è il tratto distintivo di alcuni scrittori popolari fra cui l’indimenticabile Sholem Aleichem, autore di «Tewie il lattaio», «Marienbad» e numerosi altri racconti. È una miscela di umori corrosivi, bonari, autocritici, spregiudicatamente dissacranti, sempre conditi da una dose di sorridente malinconia. È la medicina ricostituente con cui gli ebrei del recinto sono sopravvissuti alle angherie, alle discriminazioni e ai pogrom.
Questo umorismo ha attraversato l’Atlantico ed è oggi, dopo le grandi migrazioni del Novecento, molto più presente a New York che in qualsiasi altra città europea. Uno dei suoi maggiori trionfi fu la rappresentazione a Broadway nel 1964 di «The Fiddler on the Roof» (il violinista sul tetto), un musical di Jerry Brock tratto da «Tevye il lattaio» e portato sullo schermo con un film del 1971.
Prima di emigrare verso gli Stati Uniti, tuttavia, questo umorismo aveva avuto la sua casa madre, paradossalmente, nella capitale del Paese dove gli ebrei erano stati maggiormente perseguitati. A Mosca, nel 1919, due anni dopo la rivoluzione, era stato creato il Teatro ebraico con un repertorio molto vario che andava da Shakespeare (leggendaria l’interpretazione del grande Solomon Mikhoels nel «Re Lear») a Sholem Aleichem. Sopravvisse sino alla Seconda guerra mondiale soprattutto perché Stalin ritenne utile servirsi della comunità ebraica e di Mikhoels per suscitare simpatie filo-sovietiche nella società degli Stati Uniti. Ma dopo la fine della guerra, sciolse il «Jewish anti-fascist committee», di cui Mikoels era presidente, commis sion ò al-l’Nkvd, antenato del Kgb, l’uccisione dell’attore e chiuse il teatro. Fu riaperto da Gorbaciov nel 1987 quando l’uomo della perestrojka decise di lanciare un segnale di conciliazione verso il mondo ebraico e Israele. Quando vi andai, una sera, lo spettacolo, in yiddish, era dedicato ad alcuni racconti brevi di Sholem Aleichem. Mi sembrò che gli attori fossero dilettant i , animati s oprattutto da buona volontà. Ma il vero spettacolo era in platea, nei volti sorridenti e rigati di lacrime degli ebrei di Mosca, corsi a ritrovare il loro teatro.
Sergio Romano