Davide Paolini, Il Sole 24 Ore 24/10/2010, 24 ottobre 2010
BIANCO IL MAGNIFICO, UN TARTUFO DA SOGNO
Bianco o nero? «Tuber magnatum Pico» o «tuber melasporum Vittadini»? C’è chi preferisce l’uno o l’altro; comunque sia il tartufo, con il suo profumo intenso, tutto naso, ammalia i buongustai nonostante spesso il fixing dei diversi mercati (soprattutto il bianco) tocchi cifre davvero sostenute. Ma non è il caso dell’annata 2010, che pare iniziare con prezzi abbordabili, ben diversi nelle varie capitali italiane (Alba, Acqualagna, San Miniato, San Giovanni d’ Asso, San Pietro Avellana) di questo pregiato prodotto. Anche per il «bianco» la griffe di provenienza ha tuttora la sua importanza, e quell’aggiunta «d’ Alba» fa la differenza, certamente derivata dalla fama internazionale raggiunta nel tempo. C’è chi sostiene che un tartufo portato nella capitale delle Langhe immediatamente cresca di valore... Potenza del marchio! In ogni caso, nell’ultimo decennio i valori tra i diversi mercati si sono ridotti, sviluppando tra l’altro, nei luoghi di raccolta più vocati, un importante turismo enogastronomico. L’assaggio nei territori di produzione è sicuramente il più adatto, essendo il tartufo bianco «tutto naso» e poco gusto. Già il nome scientifico («tuber magnatum Pico», vale a dire «dei magnati, dei ricchi signori», come lo definì il Pico nel 1788) è ben significativo per un prodotto della terra che altro non è se non un fungo ipogeo, nonostante si pensi erroneamente a un tubero. Insomma i tartufi non sono parenti stretti delle patate e simili, bensì di porcini, finferli e prataioli.
Fino al 1700 l’origine dei tartufi (e dei funghi) era avvolta nel mistero: se nelle civiltà primitive erano visti come manifestazioni demoniache (soprattutto i funghi velenosi), per i Greci e i Romani assunsero invece una valenza divina e afrodisiaca. Lo stesso termine «tartufo», a quanto emerge dalle ricerche, in particolare del Devoto, è di origine oscura, da non confondere con il personaggio di Moliere. Il bianco made in Italy non ha nulla a che fare con quel famoso «diamante» a cui fa riferimento Brillat-Savarin, che nella sua Fisiologia del gusto ha scritto: «(Tartufo) è parola capace di risvegliare ricordi esotici e gastronomici, sia nel sesso in gonnella che in quello provvisto di barba... ma lo si crede capace di accrescere quel potere il cui esercizio è accompagnato dai più dolci piaceri». Sì, perché Brillat-Savarin e Alexandre Dumas, autore anche di un Dizionario di cucina, non conoscevano il «tuber magnatum Pico», una varietà di tartufo che manca alla terra di Francia, ricca invece del nero di Perigord, privo di quell’odore sensuale tipico del bianco, che da sempre lo ha collocato al vertice della scala dei cibi afrodisiaci. Quell’ odore penetrante nelle narici, acre a volte, che vieta severamente la cottura per non distruggerlo, mentre i francesi il loro «diamante» lo cuociono eccome. Una diatriba, quella tra bianco e nero, che nel Cinquecento divise non poco per una contrapposizione fatta dal Durante, quando avrebbe scritto che i tartufi neri sono maschi – e quindi migliori – mentre quelli bianchi sono femmine.
Nonostante il loro sciovinismo culinario, i francesi amano eccome il bianco made in Italy: basta far sosta davanti alla vetrina della Maison de la truffe, in Place de la Madeleine a Parigi, per accorgersi di come sia il protagonista dell’autunno. Una decina di anni fa – quando ancora lira e franco non erano divenuti euro e il prezzo del tartufo correva come tutti i beni di lusso – con un veloce calcolo mi resi conto che due chili di «tuber magnatum Pico» valevano l’acquisto di un’auto Micra, esposta a pochi metri dal negozio.
Il prezzo del tartufo è del resto un interrogativo non di poco conto, essendo assai variabile ogni anno a seconda della quantità e della qualità, strettamente dipendenti dalle condizioni metereologiche: sole, pioggia e nebbia sono le incognite che incidono sul fixing di questo prodotto, caratterizzato da un mercato «opaco» e poco trasparente, di cui sono protagonisti i «trifolau», i cavatori che hanno tutta una serie di riti notturni per non far scoprire dove trovano il tesoro, e una serie di trucchi – come mettere essi stessi la trifola in certi luoghi – per sviare i concorrenti.
Un teatro da non perdere, al mattino molto presto, sono i mercati delle Langhe e del Monferrato (Nizza Monferrato, Canelli, Alba), di Acqualagna e delle Crete senesi. Qui si tengono le contrattazioni clandestine e avviene lo scambio di quei tartufi odoranti, trattenuti nei tradizionali fazzoletti colorati. E lo spettacolo del tartufo continua a tavola, nelle tante trattorie piemontesi, marchigiane, toscane, romagnole e molisane, con la sniffata del bianco, portato a grappoli sui vassoi prima della grattugiata, assai costosa ma inebriante. Sine qua non.