Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  ottobre 24 Domenica calendario

COMMENTI A REGOLA D’ARTISTA

«Un disegnatore che legge l’articolo da illustrare è come un cacciatore di tesori dentro un relitto». Sono parole di Ralph Steadman, il più antitradizionalista dei disegnatori inglesi. La pagina Op-Ed del «New York Times» (quella dove si pubblicano i commenti), festeggia in questi giorni i suoi primi 40 anni (è nata il 21 settembre 1970), ed è stata un "relitto" gigantesco per una generazione di autori che, su quella carta, ha reinventato l’illustrazione politica. La pagina era stata concepita come una specie di agorà aperta alle persone prive di collegamenti istituzionali con il Nyt, i cui punti di vista sarebbero stati spesso in contrasto con quelli degli editorialisti, ospitati nella pagina di fronte (da qui il nome Opposite Editorial), e la presenza di immagini disegnate è stata una esigenza immediata.

Jean Claude Suares, il primo dei 24 art director che si sono alternati nel tempo, spiega: «Non volevo che gli illustratori illustrassero, non volevo disegni puliti che non offendessero nessuno. Cercavo sperimentazione, simboli non convenzionali, espressione personale, metafore inaspettate. Con alcuni era impossibile avere un dialogo. Ad esempio Edward Gorey non riconosceva la mia autorità, ma faceva disegni stupendi». Due anni fa, in una galleria del Greenwich Village, Jerelle Kraus, per 13 anni art director della pagina Op-Ed, presentò All the Art That’s Fit to Print (And some that wasn’t), dedicato alla sua esperienza. Un bellissimo libro di 260 pagine, con oltre 300 illustrazioni di 140 artisti provenienti da 30 paesi diversi (Tullio Pericoli e Andrea Ventura gli italiani), edito da Columbia University Press, con aneddoti e testimonianze dei responsabili dei testi e dei disegnatori, purtroppo ancora non pubblicato in Italia. Quella sera di due anni fa, alle pareti color pesca del Pen and Brush Club di New York, erano esposte preziose illustrazioni originali e in sala erano presenti molti disegnatori, autori di alcune delle 30mila illustrazioni in quasi 40 anni nelle Op-Ed, selezionate dalla Kraus per il suo libro.

C’era Marshall Arisman che parlava dei suoi ricordi: «Smettila di fare l’illustratore, rovinerà la tua carriera di artista – mi dicevano i galleristi – avrebbero preferito che facessi l’idraulico. Ma è difficile spiegare l’eccitazione di quel periodo, era un’emozione fortissima aprire quella pagina ogni giorno, tutti avevano la sensazione che qualsiasi cosa fosse possibile. L’arte pubblicata sulle pagine Op-Ed fu una rivoluzione che cambiò l’immaginario collettivo». Al Pen and Brush Club c’era Brad Holland, da molti considerato il più grande illustratore americano vivente, probabilmente la "voce" che ha meglio definito quello spazio del Nyt, che raccontava la spavalderia e la voglia di provocazione di quegli anni: «Un giorno andai in redazione e dissi: ecco i miei disegni, scrivete qualcosa che vada bene per loro». Il contesto era favorevole, si poteva osare, i disegni a volte erano duri, ma divennero veicoli di significato, amplificatori di senso, capaci di alterare lo stato d’animo del lettore e le sue opinioni. Le preoccupazioni stilistiche non erano la priorità, le diversità divennero complementari, contribuendo a dare una personalità riconoscibile alla pagina Op-Ed.

L’illustrazione smise di essere decorativa per assumere una dignità diversa, i disegnatori erano considerati alla stregua degli autori dei testi. Il ruolo di Jerelle Kraus come art director è riconosciuto da tutti i disegnatori con cui ha lavorato: «Ho sempre saputo che lei era dalla nostra parte, di chi cerca di esprimere l’inesprimibile», ha raccontato nel libro Steadman, che deve essersi scontrato, come spesso succede a chi disegna sui giornali, con le prudenze dei capi, con il nemico principale dell’immaginazione: l’equilibrio, quello che, secondo Ed Koren, un altro illustratore, rende l’artista infantile, gli toglie il suo pungiglione. Un detto abusato sostiene che un’immagine vale più di mille parole, ma questo potere è anche la sua maledizione, perché viene vissuta come una minaccia da chi ha la responsabilità di pubblicarla.

Oggi l’illustrazione politica è morta, sostituita dalla satira, alla quale si perdona l’impertinenza. La rabbia è svanita, sublimata nel pernacchio della vignetta, ma la satira è anche una dichiarazione di impotenza, ultima arma di chi non ha speranze di poter cambiare lo stato delle cose. Se la vignetta è esplicita, immediata, da Holland arriva l’invito alla lentezza, allo slow-glance, all’interpretazione del non detto, del non disegnato «non è obbligatorio capire il disegno nel momento in cui lo guardi. A volte alle persone consegni una metafora e questa siede nelle loro teste per anni, fino a quando qualcosa non la sblocca. Alcune persone la capiscono subito, altre la capiranno dopo, altre ancora non la capiranno mai».

La generazione di autori formatasi nel mondo Op-Ed ha sempre considerato arte quello che fa, rifiutando di essere catalogata in quella che negli Usa viene definita commercial art. Una posizione diametralmente opposta a quella della ultima generazione di illustratori, ben rappresentata da Edel Rodriguez, che taglia corto: « Il mio lavoro è quello di illustrare un articolo, non quello di esprimere me stesso». Ma se l’illustrazione è nata da un bisogno commerciale ed è tornata a usare, anche sui giornali, il linguaggio della pubblicità, non si può dimenticare che c’è stato un momento in cui è stata capace di essere arte. Una celebre frase di Anthony Burgess dice che l’arte è pericolosa, è una delle caratteristiche che la rende attraente. Quando cessa di essere pericolosa, smette di essere arte.