Christian Rocca, Il Sole 24 Ore 24/10/2010, 24 ottobre 2010
UN SOLO NEMICO, L’ÉLITE
Siamo nel pieno di una nuova guerra culturale americana, diversa da quella che in questi ultimi trent’anni ha diviso destra e sinistra, conservatori e progressisti. Una rivolta populista contro le élite, non paragonabile a quella che percorre l’Europa. L’immigrazione non c’entra. La crisi economica è solo uno degli ingredienti, forse nemmeno quello più importante. Chi protesta non chiede welfare, aiuti, soldi. Semmai vuole stringere i cordoni della borsa.
Rispetto alle battaglie ideologiche del passato, cominciate negli anni di Ronald Reagan e continuate fino all’epoca di George W. Bush, il tema di scontro non è più l’aborto, il matrimonio gay, la manipolazione degli embrioni. Non si sentono slogan su Dio, patria e famiglia. La destra religiosa è sparita. I saggi laicisti sono scesi dalla vetta delle classifiche. Il mondo liberal, a cominciare dal presidente Barack Obama, non conduce crociate su temi eticamente sensibili. I Tea Party parlano d’altro, di tasse, di Costituzione, di libertà individuale.
Secondo il filosofo libertario Lee Harris, stiamo assistendo a una ribellione popolare contro un’élite intellettuale che in nome di una superiorità meritocratica pretende di dettare legge all’americano medio. I Tea Party, scrive Harris nel suo nuovo libro The next american civil war – The populist revolt against the liberal elite, non sono il prodotto della crisi del 2008. Non sono l’effetto di una contingenza economica. La rivolta è strutturale, scrive Harris.
L’americano medio non vuole più sentirsi dire dall’establishment di destra e di sinistra di non preoccuparsi perché tanto c’è qualcuno pronto a occuparsi del suo bene. Abbasso i professionisti della politica. Viva la democrazia diretta. È la trasposizione in politica del fenomeno di certi blog, dei forum, del dibattito online. Abbasso gli esperti. Viva l’opinionista diffuso.
Qualche solida base, però c’è. L’esperimento costituzionale americano, nato con quella rivolta popolare anticolonialista invocata dai Tea Party contemporanei, si fonda sulla libertà dei suoi cittadini di scegliere il proprio destino e di compiere le proprie scelte. Il mega intervento dello Stato per salvare Wall Street e le grandi aziende automobilistiche di Detroit, assieme ai programmi sociali di Obama, fanno temere a buona parte degli americani che gli Stati Uniti siano destinati a perdere la loro unicità storica, l’eccezionalismo di una nazione che è nata come modello alternativo a quello oligarchico europeo, ma che all’Europa del welfare, delle élite, del controllo dello Stato ora sembra volersi avvicinare.
Lo scontro probabilmente è iniziato il 6 aprile di due anni fa. A una cena elettorale con l’alta società liberal di San Francisco, l’allora candidato Obama disse che nei piccoli paesi della Pennsylvania e del Midwest, dove alle primarie la sua avversaria Hillary Clinton prendeva molti più voti di lui, la gente «si aggrappa alle armi e alla religione per andare incontro alle proprie frustrazioni» causate dalla crisi economica. Obama fu accusato dai clintoniani di essere uno snob, un intellettuale da salotto, un elitario con la puzza sotto il naso.
Bill Clinton sapeva di che cosa parlava. C’erano voluti anni per riuscire a togliere al suo partito, al Partito democratico, quella fastidiosa e indulgente patina di superiorità antropologica nei confronti della gente normale, non istruita nelle scuole dell’Ivy League e spesso confinata in quella profonda provincia che Sarah Palin chiama «Real America».
Clinton era un intellettuale, un politico brillante, un secchione capace di entrare nei dettagli delle iniziative legislative come e meglio degli esperti di settore, ma se c’era bisogno si trasformava in Bubba, nel simpatico ragazzone del sud che mangiava burger e patatine come il resto degli americani, che guardava le corse automobilistiche come i «Nascar dad», che si trovava a suo agio alle fiere paesane del midwest.
La gaffe elitaria di Obama della primavera 2008 era riuscita quasi a far deragliare la campagna del giovane senatore dell’Illinois. Da quel momento Obama ha capito. La retorica sulle folle plaudenti, l’agiografia sulle masse popolari, la lirica sul riscatto di un’intera nazione sono diventati l’asse portante della sua formidabile campagna elettorale. Due anni dopo, Obama e i suoi alleati ci sono ricascati, a causa dei Tea Party.
L’inaspettato successo popolare del movimento antistatalista e individualista ha colto di sorpresa la Casa Bianca, i grandi giornali liberal e l’establishment politico e intellettuale americano, di destra e di sinistra, conservatore e liberal. I Tea Party sono stati prima ignorati, poi derisi. Malgrado la caricatura, i consensi sono cresciuti. A ogni vittoria elettorale si è cercata una nuova spiegazione. Sono arrivati nuovi insulti: estremisti, fuori di testa, ignoranti, razzisti, ipocriti, manovrati da forze oscure. Non ha funzionato. Peter Berkowitz, della Hoover Institution, ha scritto sul «Wall Street Journal» che la mancata comprensione del fenomeno Tea Party, un anno e mezzo dopo la sua esplosione, è dovuto alla scarsa istruzione della classe intellettuale americana. Nelle università d’élite, ha scritto Berkowitz, non si insegnano più i principi fondamentali dell’esperimento americano. Nei dipartimenti di Scienze politiche si è preferito puntare su ricerche empiriche e su modelli matematici. In quelli di Storia l’attenzione è concentrata sulle questioni sociali: razza, classe, genere. Si sono persi di vista i principi fondanti del governo costituzionale americano, quello oggi invocato da quei mattacchioni con il berretto a tricorno.
Chi invece ha preso sul serio le proteste dei Tea Party ha spiegato che questa nuova forma di populismo avrebbe devastato il mondo conservatore, trascinandolo su posizioni troppo radicali non compatibili con lo spirito americano. I repubblicani ne sono stati travolti, anche se il 2 novembre potrebbero approfittare dell’entusiasmo scatenato dai Tea Party. I democratici hanno flirtato con l’idea che la presa del Partito repubblicano da parte di questi estremisti potesse addirittura favorirli, perché le loro posizioni alle elezioni avrebbero spaventato gli elettori moderati e indipendenti. A poco più di una settimana dal voto, i sondaggi sembrano confutare anche questa tesi. La ridicolizzazione però continua. Gli intellettuali liberal, ma anche molti conservatori, non vogliono credere che l’era della stupidità, come la chiamano loro, abbia preso il sopravvento nel paese. Sicché reiterano le accuse, complici le straordinarie inadeguatezze di alcuni candidati dei Tea Party. I comici Jon Stewart e Stephen Colbert hanno organizzato per sabato 30 a Washington la manifestazione Restore Sanity, ristabilire il buonsenso contro le stravaganze dei Tea Party. Ma dare degli stupidi agli avversari non è detto che funzioni.