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 2010  ottobre 24 Domenica calendario

TUMORI

UNA recente analisi epidemiologica effettuata negli Stati Uniti su archi temporali sufficientemente ampi (Cancer Statistics, 2010), ci informa che la riduzione dei decessi per tutti i tipi di tumore dal 1990 al 2006 è stata per gli uomini del 21% e per le donne del 12%. Allargando l’obiettivo agli ultimi 30 anni, nei maschi i maggiori risultati si sono registrati per le neoplasie a stomaco, prostata, colon-retto e al polmone. Nelle femmine una riduzione della mortalità simile a quella registrata per gli uomini (21%) si è avuta, sempre tra 1990 e 2006, per i tumori al seno e al colon-retto.
Al contrario il tasso di decessi per cancro al polmone tra le femmine è aumentato significativamente a partire dagli anni ‘80, aumento imputabile alla diffusione del vizio del fumo tra le donne. È importante poi precisare che la diminuzione complessiva della mortalità è molto meno marcata nei tumori rispetto alle malattie cardiovascolari tanto che nei soggetti con età inferiore a 85 anni ormai il cancro rappresenta la prima causa di morte e che uno su due maschi ed una su tre femmine complessivamente è da prevedere che svilupperanno un cancro durante il corso della vita. Ciò dimostra chiaramente che questa malattia rappresenta una priorità straordinaria dal punto di vista sociale e della collettività.
Quali considerazioni dedurre e quali misure attuare dalla lettura di questi risultati? Siamo oggi realmente in grado di sviluppare nuove e più efficaci armi per contrastare con maggiore determinazione e con più risultati il cancro? A mio parere è oggi un dovere essere ottimisti, specie alla luce del fatto che l’oncologia medica sta entrando in una nuova era. Disponiamo di terapie che stanno cambiando la storia naturale della malattia come gli anticorpi anti-Her2 per il carcinoma mammario o l’imatinib per la leucemia mieloide cronica. Purtroppo si tratta al momento di “vittorie” sporadiche. Ma in parte dei tumori se non è possibile la guarigione definitiva è possibile allungare di molto la sopravvivenza migliorando la qualità di vita. In sostanza è possibile rendere il cancro una malattia cronica come tante altre per le quali ci si cura tutta la vita (malattie del fegato, ipertensione, diabete). La ricerca in oncologia è però realmente un’impresa complessa: meno del 5% dei principi attivi escono dai laboratori per passare nell’armamentario dei clinici, una percentuale inferiore ad ogni altra area della ricerca biomedica. Più di 800 milioni di dollari sono necessari per sviluppare un farmaco oncologico.
I ricercatori stanno affinando le armi, cercando di migliorare il processo di selezione delle molecole, aumentando la precisione degli studi iniziali (come quelli di fase I), disegnando nuove “architetture” per i trial di fase 0, in cui il bersaglio del farmaco viene determinato prima di rilevarne l’attività e la tossicità. Il drug targeting consentirà così di ottenere risultati più rapidi dallo sviluppo clinico. Dal punto di vista dell’innovazione tre sono le aree che sembrano particolarmente promettenti.
- La prima è la possibilità di applicare le tecnologie ad alto rendimento per giungere un giorno a conoscere ad esempio quali sono tutte le varianti nel genoma umano che svolgono un ruolo nell’aumentare il rischio di cancro. La genomica è una di queste tecnologie. Un esempio specifico è il progetto Cancer Genome Atlas il cui obiettivo è individuare i cambiamenti genetici ed epigenetici che caratterizzano un gran numero di tumori e, soprattutto, identificare nuovi bersagli per la terapia farmacologica anche allo scopo di selezionare un gruppo di pazienti con prognosi differente e differenti risposte alla terapia. L’aspettativa è che in pochi anni sia possibile derivare tutte queste informazioni dall’analisi di un semplice campione di sangue e tutto ciò con poche migliaia di euro.
- La seconda opportunità è quella di tradurre le scoperte scientifiche di base in nuovi e migliori trattamenti. Per far ciò abbiamo bisogno di colmare le lacune tra scienza di base e clinica. A questo riguardo la scommessa maggiore è infatti che i risultati delle ricerche di laboratorio possano essere trasferiti al letto del paziente in tempi più rapidi di quanto non avvenga oggi. Noi speriamo che ciò che abbiamo finora imparato ci aiuti a velocizzare i tempi di sviluppo ed applicazione delle nuove terapie oncologiche.
- La terza opportunità è quella di dare nuovo slancio e rafforzare la comunità della ricerca biomedica, il cui successo poggia interamente sulla solidità dei programmi di formazione per la prossima generazione di scienziati di base e clinici. Il nostro Paese nel corso degli ultimi anni ha “costretto” molti giovani scienziati di talento a migrare e rimanere per lunghi periodi all’estero o senza alcun sostegno finanziario. Assunzioni, lavoro in équipe, finanziamenti stabili per la ricerca biomedica sono fondamentali per cogliere le opportunità senza precedenti che si aprono in questa fase. Abbiamo bisogno di programmi strutturati di finanziamento simili a quello del National Institute of Health americano, mirati a sostenere gli scienziati più meritevoli e solamente quelli in ogni fase della loro carriera con una serie di premi e sovvenzioni sia di formazione che di ricerca sin dal corso di laurea fino alle fasi più mature del loro percorso scientifico e di ricerca (senior scientist award). Purtroppo in Italia non esiste nulla di simile.
L’economia mondiale sta affrontando una fase di estrema difficoltà, i cittadini sono giustamente preoccupati e forse si chiedono se possiamo permetterci di sostenere la ricerca proprio ora. Ma l’opportunità di sfruttare questo grande momento della scienza medica non va assolutamente persa per il nostro Paese. Dobbiamo riuscire a spiegare a tutti i livelli che il lavoro dei clinici e dei ricercatori ha un grande valore e un enorme potenziale, e che il nostro impegno è profuso non per l’interesse di qualcuno ma per quello di tutti noi.
*Direttore del dipartimento di Oncologia medica
Istituto nazionale tumori Regina Elena di Roma
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