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 2010  ottobre 25 Lunedì calendario

Il presidente della Repubblica — recita l’art. 90 della Costituzione — non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione

Il presidente della Repubblica — recita l’art. 90 della Costituzione — non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri». Secondo la Costituzione, il capo dello Stato sarebbe, dunque, responsabile davanti alla legge — come ogni cittadino della Repubblica (art. 3) — di eventuali reati comuni commessi (anche) durante il suo mandato e, come tale, passibile di essere giudicato dalla magistratura ordinaria. A integrare la Carta hanno, però, provveduto la Dottrina costituzionalistica e la giurisprudenza della Corte costituzionale, le quali hanno stabilito che egli «non è responsabile» anche di atti non compiuti nell’esercizio delle sue funzioni. Primo paradosso. La Repubblica democratica italiana, nata a seguito del referendum che aveva sanzionato la fine della monarchia, ha esteso le prerogative regie (ereditarie), proprie dei sovrani delle monarchie costituzionali del XIX secolo, a un presidente della Repubblica — non sto parlando di Napolitano, ma della figura istituzionale — eletto dal Parlamento. Secondo paradosso. È a tali prerogative, non alla Costituzione, che — in punta di Dottrina e di giurisprudenza della Corte costituzionale, cioè del tutto legittimamente — il presidente della Repubblica ha rifiutato l’estensione della temporanea immunità, per tutto il periodo del suo mandato, anche a se stesso, per eventuali reati comuni, che gli voleva riconoscere il Parlamento. Terzo paradosso. L’integrazione alla Costituzione, da parte della Dottrina costituzionalista e della Corte, e lo stesso Lodo Alfano di iniziativa governativa, rappresentano, in un certo senso, quello che, negli Stati Uniti, sono gli «emendamenti» che, nel corso di oltre due secoli, sono stati apportati alla Costituzione. Ma con una differenza, non da poco: quelli sono noti ai cittadini americani quanto il testo della Costituzione perché ne sono posti a corredo, mentre, da noi, il dettato della Dottrina — gli arcana imperii di un Stato democratico a chiacchiere più che nei fatti — è conosciuto solo dai cultori di Diritto costituzionale e, a differenza degli emendamenti americani, che sono una modificazione della norma costituzionale, non è neppure un precedente vincolante. Paradosso nel paradosso. La maggioranza di governo ha interpretato, negativamente, la decisione del Quirinale come un «dispetto» del presidente della Repubblica al presidente del Consiglio, classificandola automaticamente come un gesto a sostegno dell’opposizione. L’opposizione l’ha giudicata positivamente, citando a sproposito la Costituzione, come un rifiuto del capo dello Stato di farsi coinvolgere in un discutibile provvedimento ad personam a tutela di quello del governo. I media si sono schierati da una parte o dall’altra, evitando accuratamente di spiegare come stavano le cose e contribuendo, con la confusione, alla carenza di trasparenza e alla radicalizzazione del già infuocato conflitto politico. I cittadini più attenti hanno finito col chiedersi perché mai il presidente della Repubblica abbia rifiutato quella parte del Lodo Alfano che lo riguardava, e per di più a suo favore, in quanto a integrazione, e a maggiorazione, delle garanzie che la Costituzione già gli riconosce; gli altri si sono schierati, a seconda delle proprie preferenze politiche, dalla parte del Lodo Alfano o contro senza averne capito, come al solito, granché. Ultimo, per ora, paradosso. Adesso, la maggioranza di governo ha buon gioco a chiedersi, e a chiedere — se il presidente della Repubblica gode di una immunità totale durante il suo mandato, grazie alla giurisprudenza della Corte costituzionale, cinque membri della quale sono da lui nominati — perché non ne possa godere anche il presidente del Consiglio; perché i singoli parlamentari non possano essere messi al riparo dalle inchieste di Procure, spesso troppo disinvolte, per non dire irresponsabili, dopo che l’abolizione dell’autorizzazione a procedere (ex art. 68 della Costituzione) da parte delle Camere, ha, di fatto, messo il Parlamento nelle mani della magistratura ordinaria. L’opposizione, e i media che la fiancheggiano, schierati a difesa della Costituzione secondo retorica resistenziale, continuano a guardarsi bene dal parlare della molteplicità di paradossi dai quali è stata intessuta la questione. Il risultato è che l’intera vicenda, invece che spiegabile in punta di diritto, è raccontata in chiave moralistica: i cattivi da una parte, i buoni dall’altra, secondo i gusti e ignoranza delle cose. A questo punto, voglio precisare che queste riflessioni — come dovrebbe essere ampiamente palese a chi non è un «idiota di parte» — non sono né una difesa, o una critica, del Lodo Alfano né, tanto meno, un’accusa di eccessivo zelo al presidente della Repubblica. Che, invece, e ancora una volta, si è comportato correttamente, come il suo ruolo gli impone, cioè nel rigoroso rispetto dei principi costituzionali vigenti. Se è finito coinvolto nei molti paradossi che li caratterizzano ho il sospetto che non lo si debba, probabilmente, neppure a una sua scelta diretta ma, forse, solo a quegli eccessi di pedanteria di cui sono capaci le burocrazie, non escluso, in questo caso, il pur ottimo Ufficio legale del Quirinale, che, in certe circostanze, hanno la non comune, ma congenita a ogni burocrazia, capacità di complicare le cose semplici. Napolitano è uno di quegli ex dirigenti del Pci, come era Giorgio Amendola, che, durante il fascismo, dalla lettura di Benedetto Croce, studioso di Machiavelli e di Marx, avevano appreso l’arte del realismo politico. Non è inimmaginabile che egli abbia qualche difficoltà a sentirsi in sintonia con la cultura politica del presidente del Consiglio, ma non è neppure azzardato dire che, a differenza di altri presidenti che lo hanno preceduto, non gli faccia la guerra perché, realisticamente, ne prende atto, limitandosi a contenerne, diciamo così, l’esuberanza, assolvendo scrupolosamente le proprie funzioni come gli detta la Costituzione, invece che come gli suggerirebbero le proprie personali idee politiche. I paradossi costituzionali citati sono, d’altra parte, lo specchio fedele di un Paese culturalmente, politicamente ed eticamente strampalato. A me pare, perciò, del tutto conseguente, e persino comprensibile, se non giustificabile, che lo sia anche il suo Ordinamento giuridico, frutto, come è, di antichi e ambigui pasticciacci, di approssimativi compromessi, di ritardi nell’adeguamento alle mutate condizioni sociali e politiche, di conflitti politici insanabili perché inflessibilmente ideologici fra bande contrapposte. Diciamola tutta, allora, la vicenda è stata l’ennesimo, sconfortante spettacolo di un Paese alla deriva.