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 2010  ottobre 23 Sabato calendario

LA NATURA, L’ARTE, LA STORIA. L’ORGOGLIO DI DIRE «VIVA L’ITALIA»

Il presidente rivolto agli accusati dice: "Avete nulla da aggiungere in vostra difesa?". Il generale Perotti si alza: "Se il capitano Balbis e il tenente Geuna hanno responsabilità, essi lo debbono esclusivamente all’obbedienza prestatami. Chiedo che se ne tenga conto". Il tenente Geuna si alza e dice: "Voglio dire che quello che ho fatto l’ho fatto di mia spontanea volontà e non per istigazione del generale Perotti, e siccome io sono scapolo mentre il generale Perotti è padre di tre figli, chiedo al tribunale di voler dare al generale la pena dell’ergastolo che è stata chiesta per me, e a me la morte". Il generale Perotti si alza e grida: "Viva l’Italia!". Gli imputati rispondono: "Viva l’Italia!". Il tribunale si ritira» .
«Viva l’Italia!» grida il mio ortopedico ogni volta che mi fa scrocchiare le giunture. È il suo modo di sdrammatizzare.
«Viva l’Italia!» ha un significato molto diverso da «Vive la France!», l’invocazione con cui i presidenti francesi concludono il loro messaggio alla nazione, la notte di Capodanno. «Vive la France!» si pronuncia con tono solenne, evoca De Gaulle e Napoleone, la grandeur e gli eserciti rivoluzionari. «Viva l’Italia!» ha un sapore scherzoso. Ci ridiamo su. I pochi che lo dicono sul serio vengono irrisi come insopportabili retori. Ci viene più naturale semmai «Forza Italia!», grido da stadio divenuto partito di maggioranza relativa.
Questo non vuol dire che noi italiani non amiamo il nostro Paese. Anzi, nel profondo vi siamo intimamente legati. L’Italia è vissuta come una grande mamma affettuosa; malandata e piena di acciacchi, ma pur sempre la mamma. «In fondo come si vive in Italia non si vive da nessuna parte» si sente ripetere alla fine di discorsi carichi di lamenti. Oppure: «L’Italia è il Paese più bello del mondo». Come se fosse una consolazione anziché una responsabilità, una forma di compiacimento invece di uno sprone a meritarci il patrimonio che la natura e i nostri padri ci hanno affidato. Come se l’Italia non fosse una cosa seria, costruita e difesa da generazioni che vi hanno creduto sino alla fine. E ci pare impossibile che siano esistiti uomini e donne per cui l’Italia era un ideale che valeva la vita, e per cui «Viva l’Italia!» furono le ultime parole. (...) Risorgimento e Resistenza. Chissà cosa direbbe dell’Italia di oggi il generale Perotti. Cosa direbbe Garibaldi, che conquistò un regno ma con sé a Caprera non portò i quadri di Caravaggio e l’oro dei Borboni bensì un sacco di fave e uno scatolone di merluzzo secco. Cosa direbbero i volontari della Grande Guerra, che scrivevano alle madri: «Forse tu non potrai capire come non essendo io costretto sia andato a morire sui campi di battaglia, ma credilo mi riesce le mille volte più dolce il morire in faccia al mio Paese natale, per la mia Patria. Addio mia mamma amata, addio mia sorella cara, addio padre mio. Se muoio, muoio coi vostri nomi amatissimi sulle labbra, davanti al nostro Carso selvaggio». Cosa direbbero i partigiani che scrivevano alle famiglie: domani mi fucilano, ma ce la faremo a costruire un Paese migliore.
La Resistenza non è di moda. È considerata una «cosa di sinistra». Si dimentica il sangue dei sacerdoti come don Ferrante Bagiardi, che volle morire con i parrocchiani dicendo «vi accompagno io davanti al Signore», e dei militari come il colonnello Montezemolo, cui i nazifascisti cavarono i denti e le unghie, non i nomi dei compagni. Si dimentica che i partigiani non furono tutti sanguinari vendicatori ma anzi vennero braccati, torturati, impiccati ed esposti per terrorizzare i civili; e che i «vinti», i «ragazzi di Salò», per 20 mesi ebbero il coltello dalla parte del manico, e lo usarono. Neppure il Risorgimento è di moda. Lo si considera una «cosa da liberali». Si dimentica che nel ’48 insorse l’Italia intera. È l’ora della Lega e dei neoborbonici. L’Italia la si vorrebbe divisa o ridotta a belpaese: non una nazione, ma un posto in cui non si vive poi così male. Invece l’Italia è una cosa seria. È molto più antica di 150 anni; è nata nei versi di Dante e Petrarca, nella pittura di Piero della Francesca e di Tiziano. Ed è diventata una nazione grazie a eroi spesso dimenticati. (...) Né Lega né Belpaese. Non è difficile sentire l’Italia nella bellezza creata dai suoi artisti, nati e morti quando l’unità della nazione non era che un sogno. C’è un’Italia rancorosa che se la prende con Napoleone razziatore di opere d’arte. Ma cos’è più esaltante che entrare nello scrigno dell’orgoglio francese, il Louvre, salire al piano nobile del museo più famoso al mondo, percorrere la Grande Galerie e camminare per quasi un chilometro tra centinaia di quadri di commovente bellezza, e pensare che non ce n’è uno, uno solo, che non sia stato dipinto da un italiano? Quasi ignorare la Gioconda (che non è un furto ma fu portata in Francia da Leonardo stesso) e soffermarsi invece, nella stessa sala, sul meraviglioso Cristo di Lorenzo Lotto che difende l’adultera, e sulle Nozze di Cana in cui Veronese ritrae se stesso e i suoi rivali Tintoretto e Tiziano; quindi tornare all’inizio della Galleria, ricominciare da Cimabue e da Giotto, e poi a destra la straordinaria Battaglia di San Romano di Paolo Uccello con i palafrenieri all’assalto, a sinistra il Gesù statuario di Mantegna e quello piangente di suo cognato Giovanni Bellini, le lacrime di sangue del Cristo di Antonello da Messina con una corda al collo come un animale, i colori irreali della Deposizione di Rosso Fiorentino; e ancora i misteriosi divertissement dell’Arcimboldo e, quasi di fronte, la donna annegata nel Tevere che Caravaggio trasformò nella Madonna morente... Cos’è più emozionante che andare alla National Gallery di Londra, cercare il primo episodio della Battaglia di San Romano, forse meno bello di quello del Louvre ma valorizzato meglio visto che gli è dedicata un’intera parete, e poi l’Atteone di Tiziano trasformato in cervo per aver visto Diana e le sue ancelle nude, un quadro che Cézanne amava al punto da trarne spunto per le sue Bagnanti, quindi la Deposizione incompiuta di Michelangelo dalle vesti che sembrano svolazzare fuori dalla tavola, e finalmente il Battesimo di Gesù di Piero della Francesca: forse il quadro più bello che sia mai stato dipinto, un’opera quattrocentesca che potrebbe essere stata realizzata ieri, o da un simbolista d’inizio 900, o da un impressionista di fine 800 (Degas per i suoi Spartani riprende letteralmente le figure di Piero, come più tardi farà Balthus); un quadro talmente straordinario che il direttore della National Gallery lo comprò per sé, nel 1861, ma dopo due giorni di tormenti decise che fosse troppo bello per rimanere in una casa e dovesse stare nel suo museo, fino a quando nel 2009 l’arcivescovo di Canterbury, massima autorità spirituale della Chiesa anglicana, disse che il Battesimo era troppo bello e sacro per rimanere in un museo e avrebbe dovuto stare in una cattedrale, possibilmente la sua. E cos’è più commovente che entrare al Prado e fermarsi davanti a El Entierro, la tela in cui Giuseppe di Arimatea, le Marie e gli apostoli seppelliscono il Cristo, un quadro meraviglioso che Tiziano dipinse con le mani, modellando il corpo di Gesù come fosse già decomposto, con una tecnica in cui i colori si fondono l’uno nell’altro con un anticipo di tre secoli sulle ninfee di Monet: un’opera di una drammaticità tale che, quando Carlo V lasciò il governo dell’impero su cui non tramontava mai il sole per ritirarsi in un convento, la portò con sé, e morì guardandola.
Aldo Cazzullo