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 2010  ottobre 23 Sabato calendario

IL PONTE, MONUMENTO DELL’ITALIA DISUNITA

«Potremmo tirare in qua la Sicilia ed eliminare lo Stretto. O prosciugare il Tirreno con enormi spugne…», suggerisce lo scienziato. Zio Paperone però non è convinto. Certo, l’idea di fare il ponte per ricavare coi pedaggi sonanti dollaroni gli ha fatto balenar negli occhi la calcolatrice. Mica per altro ha avuto l’ispirazione guardando in tv la copia a fumetti di Reinhold Messner che dopo aver raccontato le ultime imprese leggendarie («ho scalato a piedi nudi il K2 e ho attraversato l’Antartide a testa in giù») rivela la nuova sfida temeraria: «Cercherò di attraversare lo stretto di Messina su un ferry boat il 1 agosto». Ma niente da fare: ogni tentativo di creare un collegamento stabile, tunnel compreso, va in malora. Anche quello di tenere il ponte sollevato con enormi palloncini. Che a un certo punto strappano il viadotto e se lo portano via. Nel blu dipinto di blu… Solo i creativi della Disney potevano inventare una storia come quella pubblicata nel lontano 1982, sotto il titolo «Zio Paperone e il ponte di Messina». Quando mai un ponte vola via coi palloncini? Eppure, quel fumetto era la caricatura geniale di un tormentone reale. Tanto più nell’ultima vignetta. Dove il vecchio papero riccastro sogghigna perfido levando il cilindro: ««Eh eh, arrivederci al prossimo appalto, ragazzi!»
Quello sullo Stretto è l’unico ponte al mondo che invece di unire, divide. Ha diviso siciliani e calabresi, a dispetto del progetto dell’«area metropolitana dello Stretto» che dovrebbe abbinare l’area metropolitana regionale peloritana e quell’area metropolitana reggina voluta dal governo Berlusconi per tirare la volata alle Regionali di Giuseppe Scopelliti. E questo sebbene le due città dirimpettaie, anche facendo la somma degli abitanti dei rispettivi bacini, non raggiungano che la 17° posizione tra le aree urbanizzate italiane. Perfino dietro quelle di Seregno o Busto Arsizio.
Ha diviso i sindacati, con la Cgil da sempre contraria (il cremonese Sergio Cofferati disse «Il ponte è inutile») e la Cisl da sempre favorevole (il siciliano Sergio D’Antoni replicò: «Anche se fossi di Cremona direi: fatelo»). Ha diviso i politici: a destra lo vogliono, a sinistra no. Meglio, ha diviso al suo interno la destra e al suo interno la sinistra. Vittorio Sgarbi, ad esempio, ha detto che l’idea è «abominevole» e questo è «il ponte dei barbari e degli stupidi». La Lega, poi, è sempre stata contraria. A tratti ferocemente. Finché hanno spiegato ai leghisti che senza i voti siculi la destra non sarebbe al governo e Maroni non sarebbe al Viminale. E Luca Zaia ha riassunto: «Se lo facciano, se vogliono. Affari del Sud».
A sinistra Romano Prodi non è mai stato ostile. Certo, da capo del governo nel 2006 ha dovuto pagar pedaggio ai Verdi. Ma senza nascondere di non avere cambiato idea rispetto a quando, da presidente dell’Iri, nel 1985, affermava: «I lavori cominceranno al più presto. L’automobilista risparmierà 40 minuti, l’autocarro 35 e il treno 92». Del resto, come dice Nino Calarco, il direttore della Gazzetta del Sud che ha presieduto per anni la società delegata all’opera («e mi designarono i Ds anche se non ero dei loro»), «contro il ponte è sempre stata schieratissima solo la sinistra estrema…» Sostiene anzi Francesco Merlo che, al di là del fatto che «non c’è civiltà che non sia stata edificata attraverso i ponti», il Ponte anche «coi bilanci in rosso sarebbe comunque ricchezza, risorse, opportunità straordinarie, nuovi posti di lavoro» è insomma «l’opera più bella e più avanzata che l’Italia possa realizzare». Di più: «un risarcimento al nostro Sud».
Chi pensa che siano i soldi il problema, sbaglia. Certo, per recuperare i due anni di stop imposti dall’ultimo governo di sinistra il conto è salito a 6 miliardi 349 milioni 802 mila euro. E non è tutto. Perché con una serie di altre opere aggiuntive già concordate verranno superati i 7 miliardi. Anzi, spiega il responsabile dei lavori del consorzio Eurolink Giovanni Parisi, mostrando un video affascinante su come sarebbe costruito lo strepitoso manufatto, «il ponte in sé, di miliardi, ne costerà due: il resto va tutto in altre infrastrutture di contorno che cambieranno la faccia alle due città». C’è la nuova stazione ferroviaria di Messina, tre fermate aggiuntive del treno che diventerà una specie di metropolitana dello Stretto, la variante della Cittadella universitaria… Altri 700 milioni. Un miliardo, per stare larghi.
Un sacco di soldi, ma ci sono. Anche se non è proprio come la raccontava Altero Matteoli. Che mesi fa garantì: «Il ponte in sé non costa una lira allo Stato: viene realizzato in project financing ». Traduzione: i quattrini li mette il concessionario che poi si rifarà con le tariffe. Non è esatto: di soldi pubblici ne serviranno, eccome. Il piano prevede che lo Stato sborsi due miliardi e mezzo. Metà già versati. Quello che manca per arrivare ai 6,3 miliardi dell’investimento complessivo, cioè circa 3 miliardi e 800 milioni, sarà prestato dalle banche al concessionario. Cioè la società interamente pubblica «Stretto di Messina spa»: 82% Anas, 13% Ferrovie, 2,5% Regione siciliana, 2,5% Regione Calabria. Mettiamo caso che vada male: chi dovrà tappare il buco? Lo Stato.
Il guaio è, appunto, che il ponte divide scienziati, pseudoscienziati, aspiranti scienziati, volenterosi «esperti fai-da-te» di razza entusiasta e razza apocalittica ma più ancora quelli che fanno di conto. E si chiedono: siamo sicuri che «alla fine» i costi saranno quelli? I precedenti, infatti, inquietano. Nel ’98 la «Stretto di Messina» aveva calcolato (diamo il dato in valuta d’oggi) 3,7 miliardi di euro. Nel 2000 gli advisor rettificarono: 4,6. L’anno seguente: 5,6. Nel 2008: 6,1. Poi 6,3. E ora, grazie alle opere aggiuntive, si veleggia come dicevamo verso i sette.
Che la città sia nei guai, è indubbio. Il reddito pro capite provinciale nel 2007, e oggi non va meglio, era di 12.679 euro. Non solo inferiore a quello medio meridionale (12.952 euro) ma al di sotto di ben il 28% alla media nazionale (17.623 euro) e addirittura del 40% a quello del Nord Ovest (20.855). Quanto al rapporto con un milanese, un messinese aveva in tasca poco più della metà dei suoi soldi. Sconfortante. Nella graduatoria del Pil pro capite la città è all’87° posto, con un prodotto pari al 67% di quello medio italiano e al 44% di quello di Milano. Nel 2008 le persone in cerca di lavoro erano 31.500, due volte e mezzo quelle del Trentino-Alto Adige, una volta e mezzo quelle del Friuli-Venezia Giulia, metà dell’intera Emilia-Romagna. Continuiamo? Oltre un quinto degli occupati vive di stipendi pubblici: il triplo rispetto a Como o Bergamo. E il turismo? Nonostante lo stretto, uno spicchio di Etna, le Eolie e Taormina, nel 2008 ha ospitato 370 mila stranieri. Come Cuneo. Quanto ai depositi bancari, il capoluogo peloritano è in coda: 6.719 euro a testa. Un terzo rispetto ai torinesi.
Tira un’aria pesante, a Messina. Lo dice l’assalto alle poltrone, poltroncine e sgabelli del sottogoverno locale, testimoniato dalla folle scheda elettorale che nel 2005 era larga 97,5 per 48,3 centimetri così da ospitare 1.755 candidati di 41 liste. Lo dice la rivolta contro i tagli massicci di 1.560 insegnanti mandati a spasso in città negli ultimi due anni. Lo dice la disoccupazione giovanile, salita al 36%. Da brividi.
Va da sé che il ponte, per tanti, è un miraggio. La magica soluzione di ogni problema. Certo, l’incubo dei sostenitori è che resti un sogno come quello di zio Paperone. Sono due millenni che quel sogno viene frustrato. Come ricorda ne L’insostenibile leggerezza del ponte Domenico Marino, «il primo tentativo di costruzione di un attraversamento stabile dello Stretto risale al 251 a.C. Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, ci racconta del tentativo fatto dal console romano Lucio Cecilio Metello di far attraversare lo Stretto su un ponte di barche e botti ai 140 elefanti sottratti al generale cartaginese Asdrubale dopo la battaglia di Palermo».
Da allora, l’idea è riemersa e affondata più volte. Lasciandosi dietro, come dimostra una preziosa collezione di Franz Riccobono, di tutto. Leggende: il mantello di Francesco da Paola steso sulle acque per far passare a piedi il santo. Progetti rifiniti nei dettagli: quello di Carlo Navone che nel 1870 calcolò che l’attraversamento sarebbe costato 10.576.450,88 lire. Promesse, come quella di Benito Mussolini al direttore della «Gazzetta» messinese Ivanoe Fossani, nel 1941: «Dopo la vittoria getterò un Ponte sullo Stretto di Messina, perché la Sicilia perda la sua fisionomia isolana…». Francobolli col ponte declinati al futuro: nel ’53, per il Terzo Convegno filatelico dello Stretto. Cartoline, come quella del ‘56 che spiegava che «il ponte progettato dall’ing. Mario Palmieri sarà il più lungo del mondo» e che la meravigliosa opera sarebbe costata solo «100 miliardi di lire».
C’è chi è convinto che, al di là dell’utilità pratica, il Ponte a campata unica più lunga del mondo darà lavoro a migliaia di persone e richiamerà folle di turisti. Tre chilometri e trecento metri d’acciaio (contro il chilometro e 991 metri del giapponese Akashi-Kaikyo detentore attuale del record) sospesi a 65 metri di altezza e sorretti da due enormi piloni alti 382 metri: uno in più dell’Empire State Building di New York. Un’opera da fare invidia a tutta l’umanità. Insomma, dice Calarco: «sarà l’ottava meraviglia del Mondo». Al che gli scettici come Marino, che dice di volere «smascherare la realtà nascosta dietro gli slogan» e «distruggere l’idea di una politica economica costruita attraverso grandi opere di dubbia utilità pratica», si toccano: «Ci si dovrebbe dotare di cornetti, fazzoletti rossi e altri strumenti antisfiga». Delle 7 meraviglie, infatti, cosa resta? Polvere.
Ma è giusto rifiutare a priori una sfida epocale? Mah…Una grande nazione «deve» darsi grandi obiettivi. Non per vanità megalomane ma per mettere alla prova se stessa. Le proprie forze. I propri scienziati. I propri giovani. E scavalcare lo Stretto potrebbe essere una sfida utile, perché l’Italia creda di più in se stessa. C’è pure chi nega, ardito com’è il progetto, che il ponte devasterebbe «una delle più belle zone costiere» del mondo. Difficile sostenere, ad esempio, che il Golden Gate abbia devastato San Francisco o il ponte di Brooklyn abbia devastato New York. Detto questo, però, restano tre domande fastidiosissime.
La prima: lo Stato, la Sicilia e la Calabria sarebbero in grado di rompere con il passato e rispettare i tempi scongiurando l’incubo di ritrovarci tra qualche anno con degli osceni monconi di torri arrugginite svettanti sul nulla? I precedenti, diciamolo, sono pessimi: 76 perizie di variante con rincari stratosferici per la diga sul Metramo, 79 anni per rifare dopo il terremoto del 1908 il Teatro Vittorio Emanuele, 97 trascorsi da quando il ricchissimo Museo messinese fu piazzato «provvisoriamente» nella ex filanda Mellinghof. Per non dire dei tempi biblici della Salerno-Reggio Calabria o degli svincoli del quartiere Giostra nel capoluogo peloritano, che solo in questi mesi stanno per essere completati dopo esser rimasti per vent’anni a bucare il vuoto. Ma poi, nessuno ricorda che passarono ben 38 anni, dopo l’unità d’Italia, perché entrasse in esercizio (era il 1899) la prima linea regolare di traghetti nello Stretto?
Seconda domanda: i conti tornano? Il successo del progetto «non a carico dei cittadini» si basa su previsioni controverse. Dissero 10 anni fa gli advisor che nel 2032 sarebbero transitati sul ponte fino a 19.450 veicoli al giorno, treni esclusi. Nel 2003 rifecero i calcoli: 19.926 non prima del 2041. Cinque anni dopo, nella memoria della «Stretto di Messina» alla Corte dei conti del 9 dicembre 2009, nuovo taglio: 15.269. E per dicembre è in arrivo una nuova stima, con una sforbiciata ulteriore del 5%. Prudenza obbligata: l’esperienza del tunnel della Manica insegna. Quando cominciarono a scavare nell’87 pensavano di spendere 7 miliardi e mezzo: quando l’hanno aperto, sette anni dopo, ne avevano spesi 15. E la società promotrice ha sfiorato il fallimento. Tanto più che nel 2009 sono passate nel «chunnel» 9,2 milioni di persone. Meno di un terzo di quelle previste in partenza: 30 milioni. E i biglietti per passare il ponte, a quel punto, quanto costerebbero? Nel 2000 dicevano: meno di 10 euro. Nel 2010 la «Stretto di Messina» ha dovuto ricredersi: per non andare in rosso dovrà far pagare quanto i traghetti. Cioè 28 euro l’andata e ritorno in giornata, sennò 49. Il Cavaliere ci resterà male. Tempo fa, per magnificare il ponte tirò in ballo Cupido: «Se uno ha un grande amore dall’altra parte dello Stretto potrà andarci anche alle quattro di mattina senza traghetti». Pagando, però. Caro.
Terza domanda: riuscirà lo Stato a tener fuori la mafia dal gigantesco business? «Scherziamo?», giura Calarco. «Lasciate Maroni all’interno: sarà il miglior garante». Monsignor Giovanni Marra, fino a tre anni fa vescovo di Messina, non era così ottimista: «La mafia c’è. E’ forte e potente. C’è come c’è la ’ndrangheta». Una relazione della Direzione investigativa antimafia spaventa: «La capacità d’infiltrazione dei clan peloritani induce a qualche riflessione sulle attività connesse alla realizzazione del Ponte sullo Stretto. Infatti, è fondato ritenere che l’opera rientri tra gli interessi delle tradizionali organizzazioni mafiose, in considerazione dei notevoli flussi economici attivati, al punto da poter ipotizzare forme di intesa tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta…»
E’ la tesi dei nemici del ponte. Che ha spinto Nichi Vendola, il quale ai tempi in cui era nella commissione antimafia che indagava sui veleni all’interno della magistratura aveva appiccicato a Messina l’etichetta di «verminaio», a riassumere in estrema sintesi: «Il ponte congiungerebbe non due coste ma due cosche». Affermazione che gli ha guadagnato un’istantanea querela da parte degli amministratori dell’una e l’altra sponda. Per non dire dei rischi insiti nella costruzione di un bestione simile in una zona altamente sismica, colpita nel 1908 da uno dei più potenti terremoti della storia. E dell’incognita del tempo che il ponte resterà chiuso per il vento forte che spira nello Stretto. Nella migliore delle ipotesi, accusano i «no-ponte» schierati con Anna Giordano e il Wwf, sarà «una cattedrale nel deserto in mezzo a due Regioni con le infrastrutture disastrate, favorendo solo la mafia». L’esatto contrario, ovvio, di quanti assicurano che il Ponte sarà l’occasione per la rinascita economica di Sicilia e Calabria. E costringerà il Paese ad affrontare finalmente il problema delle infrastrutture del Sud. E non solo perché unirà Reggio e Messina, ma perché «congiungerà l’Africa con il Nord Europa». Se il Continente nero decollerà come oggi India e Cina, se il baricentro economico del mondo tornerà a spostarsi verso il Mediterraneo… Se le cose stanno così, perché non provarci? Perché non fare del ponte l’occasione per il grande rilancio dell’Italia?
Ma va là, ha risposto il Wall Street Journal: «Il ponte che unisce la Calabria alla Sicilia spicca come il monumento allo stato dell’Italia per una ragione: non è mai stato costruito. E’ l’emblema della cronica indecisione che incatena l’Italia al proprio passato». Il solito disfattismo anglosassone? La lettura di un rapporto pubblicato nel 2009 da Italiadecide, un think tank del quale fanno parte personaggi come Luciano Violante, Giulio Tremonti, Gianni Letta e Giuliano Amato, fa cadere le braccia. Vi si spiega che l’Italia dell’Autosole, quella capace di realizzare in otto anni la sua spina dorsale infrastrutturale rispettando tempi e costi, non c’è più. Che oggi il Paese è strozzato da burocrazia, norme fatte male, sovrapposizioni di ruoli. Risultato: per fare l’alta velocità ci a bbiamo messo vent’anni ai costi più alti d’Europa. Da 20,3 a 96,4 milioni a chilometro, contro i 10,3 della Francia e i 9,8 della Spagna. Chi garantisce che col Ponte andrebbe diversamente? Nessuno.
Per carità, va detto che al gigantesco sforzo partecipano aziende che, come spiegano gli entusiasti, «non si possono sputtanare fallendo sui tempi e sui soldi». E ricordano che del consorzio Eurolink, il general contractor, fanno parte non solo Impregilo, Condotte, Gavio e Cmc ma la spagnola Sacyr, la giapponese Ishikawajima-Harima, la Cowi. Quella che ha progettato il bellissimo Storebaelt, il ponte sospeso danese più lungo d’Europa. Ma come fidarsi?
«I lavori cominceranno nel 1987», promise il ministro Claudio Signorile nel 1984. «Inizieremo nel 2004 e l’opera sarà completata in cinque-sei anni», assicurò Pietro Lunardi, autore della legge obiettivo. «Partiremo nel 2005», lo corresse il collega Enrico La Loggia. «All’inizio del 2006», lo ricorresse Lunardi. «Nel 2009», giurò Altero Matteoli: L’ultimo piano ci dice che dopo il progetto definitivo che arriverà «il 20 dicembre 2010» si potrà cominciare dopo l’estate del 2011. Per chiudere nel 2017. Al netto, s’intende, delle cosiddette opere «a terra». Sempre che non ci siano le elezioni politiche a marzo… Sempre che non vinca la sinistra... Sempre che la Lega Nord non si impunti… E forse superare questa diffidenza, cresciuta nei secoli dei secoli, è più complicato che reggere il ponte intero coi palloncini di zio Paperone.
Sergio Rizzo-Gian Antonio Stella