Giorgio Dell’Arti, La Stampa 23/10/2010, PAGINA 84, 23 ottobre 2010
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 39 - LA TERRA È CIVILTA’
Lorenzo Valerio… A Torino c’è una via Lorenzo Valerio.
Valerio abitava in contrada della Rosa Rossa, un pezzo dell’attuale via XX Settembre, nella casa che oggi sta al civico 68, dove il 10 novembre del 1847 fu musicato «Fratelli d’Italia». Ho anche sotto gli occhi un’immagine sua di quando, dopo l’Unità, divenne governatore delle Marche. Un uomo corpulento, stempiato, con barba e baffi alla Napoleone III. Soffriva di fegato. Era figlio di un possidente. A 15 anni l’avevano cacciato da scuola e s’era messo a fare l’operaio. Poi l’agente di commercio in giro per Francia, Germania, Ungheria. Quindi aveva aperto una seteria ad Agliè, nel Canavese. Con le mani sapeva fare tutto quello che pretendeva dai suoi sottoposti, non si faceva certo incantare. Gli aveva messo la paga di lunedì, giorno in cui più volentieri operai e operaie si davano malati, e le assenze erano infatti calate di colpo. Però era sempre uno di sinistra, per dir così. Nel ‘42, nella stessa Agliè, aveva aperto un asilo, quello che oggi è il Regina Maria Cristina. E nel ‘44 aveva preso l’iniziativa degli scaldatoi: sei cameroni in cui avevano trovato riparo tremila poveri. Li faceva coprire, li faceva nutrire, e andava pure a leggergli qualcosa. Era infatti di inclinazioni letterarie, e aveva fondato un giornale già alla fine del ‘36, «Letture popolari». Fogliuzzo decisamente antiaristocratico.
Si poteva essere antiaristocratici nel Piemonte di Carlo Alberto?
Il re gli chiuse il giornale nel ‘40. C’era sempre lo zampino di Solaro: «"Letture popolari", giornaletto che si lasciò con troppa facilità pubblicare». Valerio ne fondò un altro nel ‘42, «Letture di famiglia». Carlo Alberto prima gli proibì gli scaldatoi e poi nel ‘47 gli chiuse pure questo foglio qui. Valerio andava in giro imprecando contro i Petitti, i Balbo, gli Azeglio «caporioni del liberalismo che meriterebbero di essere svergognati in faccia di tutta Italia», «oh povero, poverissimo paese, dove nissuno osa fare un passo se non è capitanato almeno da un marchese».
Cavour?
«Notre jeune agronome-libéral-aristocrate», secondo lui. E Camillo ricambiò definendolo «un excellent homme, mais un utopiste» aggiungendo che non c’era da entrare in commerci con un tipo così. Questo all’inizio. Alla fine mancò poco che venissero alle mani.
Come mai?
Successe dentro l’Agraria. Posso parlare dell’Agraria?
Prego.
Il 31 maggio del ‘42 Cesare Alfieri di Sostegno aveva spedito una lettera al ministro Gallina chiedendogli l’istituzione di «un’Associazione che tutti in sé riunisca i diversi elementi del progresso agricolo». Aveva firmato pure Cavour. Cesare Alfieri di Sostegno, vaga rassomiglianza con Fellini, un gran signore che da giovane aveva fatto il diplomatico (Parigi, Olanda, Pietroburgo) e aveva poi stretto amicizia con Carlo Alberto quando questi si trovava in esilio a Firenze. Il futuro re lo aveva nominato suo primo scudiere e per questa via Cesare Alfieri era diventato un intimo del sovrano, uno di quelli che, col conte di Castagnetto, teneva le chiavi del suo cuore.
Quindi aveva avuto il permesso di costituire questa Associazione agraria.
Sì, il regio decreto era arrivato già in agosto. Alfieri venne eletto presidente, e Cavour, all’estero in quel momento, nominato consigliere residente. Alfieri veniva da lavori importanti sul pauperismo. Le carceri, gli asili, le statistiche sui criminali piemontesi, la Società di Ricovero di Mendicità, la Confraternita della Misericordia, l’Istituto della Maternità e dei Trovatelli, la Mendicità Istruita, che aveva migliaia di studenti poveri e collocava poi i migliori presso manifatture o botteghe artigiane. L’Agraria nelle sue mani avrebbe di sicuro avuto una forte vocazione sociale. Alfieri era convinto che l’esser poveri fosse una malattia dell’epoca, forse d’origine viziosa, impossibile però da guarire finché tante terre fossero rimaste incolte e finché si fosse continuato a considerare la miseria problema fiscale o di ordine pubblico. «Si tratta di qualcosa che ha a che fare con i fondamenti stessi della nostra vita sociale», qualcosa che va affrontato «sostituendo gli sforzi isolati con lo spirito d’associazione». Così già nel ‘34. Adesso volle che l’Agraria avesse questo motto: «Ce n’est pas seulement du blé qui sort de la terre labourée, c’est une civilisation toute entière». Sono versi di Lamartine, che tradotti in prosa significano: «Dalla terra lavorata non esce solo il grano, ma un intero incivilimento».
Potrebbe essere un programma politico.
Tra l’altro quella parola, «civilisation», era una delle preferite di Cavour, che qualunque cosa facesse voleva sempre incivilire il prossimo.
E Solaro?
Ci vide subito «sotto la corteccia di aureo frutto la semenza corruttrice dei rivoluzionari». Aveva ragione. Gli agrari diventarono presto patrioti, imponendo che si discutesse in italiano e ammettendo iscrizioni anche dalla Toscana o dall’Emilia. Nel ‘47, essendo i soci riuniti a Casale, proprio a loro Carlo Alberto fece leggere una lettera in cui annunciava la sua intenzione di far la guerra all’Austria.