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 2010  ottobre 23 Sabato calendario

"Com’è slow fotografare la mia Venise” - Il Maestro ha compiuto ottant’anni, celebrati come in uno di quegli interminabili matrimoni indiani che ha fotografato nella sua carriera: prima la festa in famiglia, poi quella con gli amici di sempre, infine l’assalto alla torta di panna e fragole nello Spazio Forma di Milano attorniato dagli altri grandi vecchi, o meglio, diversamente giovani, della fotografia italiana, da Mario De Biasi a Mimmo Jodice, da Giorgio Lotti a Ferdinando Scianna

"Com’è slow fotografare la mia Venise” - Il Maestro ha compiuto ottant’anni, celebrati come in uno di quegli interminabili matrimoni indiani che ha fotografato nella sua carriera: prima la festa in famiglia, poi quella con gli amici di sempre, infine l’assalto alla torta di panna e fragole nello Spazio Forma di Milano attorniato dagli altri grandi vecchi, o meglio, diversamente giovani, della fotografia italiana, da Mario De Biasi a Mimmo Jodice, da Giorgio Lotti a Ferdinando Scianna. Poi, finalmente, nel silenzio della sua mansarda-studio, che si affaccia sul carcere di San Vittore e sullo studio dell’amico Vittorio Gregotti, mirabile sintesi dei temi più frequentati nella sua vita professionale, l’architettura e il mondo dei disperati, Gianni Berengo Gardin riprende fiato e colore. Mentre Nina, la bassotta di casa, si accoccola in grembo in attesa di carezze, il suo sguardo corre alle capriate e alle travi a vista del tetto che danno la sensazione di trovarsi nella stiva di un brigantino in viaggio verso mari e avventure lontani. Idea rafforzata dalle centinaia di modellini navali sparsi in ogni canto dello studio in aperto contrasto con i classificatori che, in un ordine svizzero com’era sua madre, sono conservati il milione e trecentomila negativi che testimoniano la sua straordinaria carriera. E poi i libri: quelli pubblicati in cinquant’anni di lavoro, i tremilacinquecento a soggetto fotografico, infine tutti gli altri, dalla collezione completa degli Struzzi a Simenon, da Steinbeck alla Storia del Partito Comunista di Spriano, accatastati con finta casualità su vecchie panche di legno o sui tavoli Leonardo disegnati da Achille Castiglioni. Gianni Berengo Gardin, e non Gardèn come ancora si ostina a chiamarlo qualche parvenu della fotografia, ignaro delle suo origini veneziane, quanto della sua giornata dedica alla lettura? «Oggi leggo molto meno, il tempo è poco. Viaggiando spesso in treno mi limito a letture leggere, come i libri gialli. Mi piace però riprendere in mano quei libri che lessi quando avevo vent’anni: sia perché oggi ricordo solo il settanta per cento di quelle letture, sia perché attraverso quei titoli, ritorno giovane». Oltre duecentoventi volumi pubblicati. Alcuni oggetto di culto come «Venise des saisons», altri di profonda denuncia sociale come «Morire di classe». Qual è il rapporto con gli altri autori di libri fotografici? «Io guadagno soldi con i libri per comprare quelli degli altri. Non so rinunciare al piacere di sentire la trama della carta sotto le mie dita, l’odore della tipografia che si sprigiona dalle pagine. Sono un feticista dei libri e quelli che oggi pretendono di leggere i libri su una lastra di vetro mi fanno ridere, è tutto semplicemente allucinante». E’ sempre stato così? «Ricordo che da ragazzino, nella Roma fascista dove con mio padre c’eravamo trasferiti dalla Liguria dove sono nato, correvo al pomeriggio nelle librerie del centro, a piedi per risparmiare anche i soldi del tram. Acquistavo i romanzi di Verne e soprattutto di Salgari, la Serie d’Oro e quelli stampati da Sonzogno, che uscivano dalla tipografia con i sedicesimi intonsi. E una volta a casa, l’attesa era premiata non tanto dalla lettura in sé, ma dal lavoro del tagliacarte che svelava il testo del racconto, pagina dopo pagina. Un piacere fisico che pochi ricordano». E nell’immediato dopoguerra? «La mia famiglia aveva deciso di ritornare a Venezia, negozio di vetri artistici. Non mi interessavano molto, anche perché in quegli anni per la mia formazione fu fondamentale, da un lato, leggere le Lettere dal carcere di Gramsci, dall’altro scoprire quella letteratura americana, dai Quarantanove racconti di Hemingway a Faulkner, da Steinbeck a Dos Passos, uno degli autori che più ho amato». Inizio degli Anni 50. La fotografia… «Scrivevo e fotografavo allora per Ali, una rivista illustrata di aviazione, come Eugene Smith ai suoi esordi. Poi, sotto l’influenza di Paolo Monti e del circolo fotografico La Gondola, fu la volta di immagini di nebbie, lagune vuote, case abbandonate. Tutte immagini superficiali. Per mia fortuna, uno zio che viveva negli Stati Uniti era amico di Cornell Capa, il fratello di Bob, e iniziò a mandarmi i libri, che in Italia sarebbero arrivati solo molti anni dopo, dei grandi fotografi americani come Dorothea Lange e Davis Douglas Duncan. Il lavoro per la Farm Security Administration e i grandi reportage di Life mi fecero capire in un istante che la fotografia non era quella delle albe e dei tramonti, ma uno straordinario e rivoluzionario mezzo per raccontare la nostra società». Parigi val bene una foto… «Venezia mi stava stretta e nel 1954 decisi di andare, con la mia Leica, a Parigi dove rimasi un paio d’anni. Lavoravo come cameriere, ma ebbi la fortuna di frequentare Henri Cartier-Bresson, Eduard Boubat, Robert Doisneau. Erano gli anni dei flâneurs ai tavolini dei caffè, gli anni di Camus e Sartre, che non ho più letto da allora. Di Parigi mi è rimasta appiccicata un’etichetta, quella del Doisneau italiano che non mi appartiene. Se proprio mi si vuole classificare, allora si dica che sono il Willy Ronis italiano. Lui sì mi ha veramente influenzato». Il ritorno in laguna… «Conobbi Bruno Zevi, che insegnava alla facoltà di Architettura e insieme pubblicammo, nel 1960, il mio primo libro, Biagio Rossetti architetto. Allora misi in una cartella le immagini che raccontavano una Venezia in bianco e nero, volti scavati dal tempo nel tempo, matrimoni e funerali, nessuna concessione ai canoni oleografici dell’epoca e bussai alla porta dei principali editori italiani. All’ottavo rifiuto, sempre con la motivazione che un libro del genere non avrebbe mai avuto mercato, decisi di lasciar stare e mandai le foto a una piccola galleria londinese. Qui, per caso, le vide Albert Mermoud, editore della svizzera Guide du Livre. Mi convocò a Losanna e in soli ventidue giorni, comprese le traduzioni dei testi di Bassani e Soldati, uscì Venise des saisons». Da allora centinaia di reportage in giro per il mondo intervallati da brevi pause a Milano, dove nel frattempo si era stabilito. Un libro dopo l’altro. Quali i preferiti? «Certamente Morire di classe, sull’istituzione manicomiale, che uscì nel 1969 con Franco Basaglia e Carla Cerati, poi i molti di architettura che mi hanno permesso di instaurare un rapporto profondo con grandi professionisti come Renzo Piano, Vittorio Gregotti, Federico Zeri. Penso poi al libro sulla Gran Bretagna, uno delle decine realizzati per il Touring Club o l’Istituto Geografico De Agostini. Ma quelli che più amo restano i volumi sul mondo contadino, sugli zingari, sulla vita quotidiana nei Paesi della Bassa come Un paese 20 anni dopo, con i testi di Cesare Zavattini». L’occhio sempre attento a cogliere il tempo dello scatto, in aperto contrasto con il mondo del presente travolto da un’informazione fotogiornalistica digitale che tutto divora nello spazio di pochi istanti... «E’ un mondo che non ignoro, ma dal quale, proprio per questo, preferisco non farmi contaminare. Io non lavoro in digitale, e le stampe che produco portano un timbro che le garantisce esenti da ogni manipolazione digitale, come dei prodotti Ogm free». Contiguità intellettuale con Carlo Petrini? «Non so, però il mese scorso, con altri colleghi, giornalisti e critici della fotografia, abbiamo fondato un nuovo movimento che si propone "un rallentamento riflessivo dell’iter fotografico", quasi alla ricerca della foto perduta: Slow Photo». C’è un rapporto definito tra le letture fatte e le immagini create? «In molte delle mie fotografie ritrovo dei punti di contatto, magari non immediatamente definiti o definibili, con i volumi che ho letto piuttosto che con le idee delle persone che ho avuto la fortuna di frequentare, negli anni e non per l’attimo fuggente di uno scatto. Dai registi come Fellini e Olmi agli scrittori come Buzzati e Calvino, da Soldati a Bocca, in assoluto il più grande di tutti, un mito per me». Un viaggio di lavoro in una landa desolata. Quale libro porterebbe con sé? «Intanto, avendo due mani, ne porterei due: L’uomo che guardava passare i treni di Simenon e I quaderni del carcere di Gramsci». E la Nikon? Quella naturalmente sarebbe appesa al collo.