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 2010  ottobre 23 Sabato calendario

Con Leopardi il gioco del Nulla - Lo ammetto, mi sono avvicinato a questo Leopardi di Pietro Citati con una lievissima esitazione: da De Sanctis a oggi, gli studi leopardiani hanno raggiunto un grado di specialismo cui Citati stesso si dichiara, ironicamente e formalmente, estraneo (i critici non sanno «divertirsi»: qui a p

Con Leopardi il gioco del Nulla - Lo ammetto, mi sono avvicinato a questo Leopardi di Pietro Citati con una lievissima esitazione: da De Sanctis a oggi, gli studi leopardiani hanno raggiunto un grado di specialismo cui Citati stesso si dichiara, ironicamente e formalmente, estraneo (i critici non sanno «divertirsi»: qui a p. 115). D’altra parte, come scrivere una sola riga su Leopardi al di là di quei risultati «specialistici»? Ma subito, fin dalle prime pagine, Citati oltrepassa il suo stesso snobismo: frequenta senza la minima affettazione tutti i discorsi che il tempo e la lena dei filologi e dei biografi hanno gettato come un ponte, o migliaia di ponti, tra noi e Leopardi, ed è nello stesso tempo libero, altrove. Le pagine su Adelaide e Monaldo, e sul mondo fantastico del piccolo Giacomo, sono le più belle che mai siano state scritte sull’argomento: Adelaide «stava sullo sfondo, coi suoi stivali, i cappelli, le chiavi, come un’incarnazione tenebrosa della Maternità». Monaldo era «un Arlecchino, un Leporello vestito di nero con lo spadino» ed era «la vera madre» di Giacomo: a tavola gli sedeva accanto, lo serviva amorosamente, ovunque era la sua ombra. «Giacomo era il suo doppio: il suo doppio compiuto». Così le annotazioni sull’amor di sogno tra Giacomo e il fratello Carlo, sono molto acute: «erano un’anima sola in due figure, come diceva la tradizione teologica», ma tutte le sensazioni e i sentimenti di Carlo «erano avvolti da un grazioso spirito fantastico e chimerico». Anche a Napoli, agli anni della Palinodia e dei Nuovi credenti, Citati dedica pagine ammirevoli: viene a capo d’un altro Leopardi, del tutto sfuggente e del tutto nuovo rispetto al lirico di prima e descrive, come pochi hanno saputo, la sua ira e la sua dolcezza umana, il suo no all’orgoglio dei «filosofi» napoletani e il suo sì all’umile vita delle formiche, dei fiori, degli uomini: quella vita che in lui si era «concentrata» nel sorriso, dirà De Sanctis. Napoli stessa, coi suoi pulcinelli «degnissimi di spagnoli e di forche», è una città «turpe, piena di taverne e di bordelli, di Orecchie di lepre e di Malefemmine», ma è anche «un’immensa città-torta o città-gelato, che Leopardi divorava con gli occhi e con i denti». Il Citati del Tè del cappellaio matto (1972), slegato, curioso, plastico, erede vivacissimo dei Cecchi, dei Trompeo, dei Praz, si ritrova qui, in questa opera abbastanza colossale su un autore dalla «scienza non vaga», e che non parrebbe postulare un tale brio. Eppure, l’operazione riesce: il suo Leopardi, dove sono profusi centinaia di riscontri e allegazioni anche di prima mano e fonti canoniche sugli antichi e i moderni (Citati ha letto perfino i due Avis pedagogici di M.me de Lambert!), è anche un saggio in cui l’autore «gioca» con questo colosso. Gioca con infinita cura e delicatezza con questo ragazzo timido per eccesso di riflessione, che «tiene per nulla» le cose umane e desidera la morte, «vola oltre la morte»; e, come Rousseau, considera la lettura l’atto fondamentale della vita, e si addormenta «con versi o parole o cantilene sulla bocca». «Leopardi ragazzo che legge in ginocchio davanti alla lanterna o alla candela che si sta spegnendo è una delle grandi visioni fantastiche che il tempo gli costruì intorno»: Citati si avvicina ai massimi «sistemi» leopardiani e ai capolavori - A Silvia, Il pensiero dominante, ad esempio - non dimenticando mai il ragazzo che legge in ginocchio; né il gracile, dolcissimo uomo che a tavola, una sera, dopo una cucchiaiata di minestra, dice a Ranieri: «Mi sento un pochino crescere l’asma»; né «Giacomo il prepotente», il «bel parlatore» delle recite puerili a Recanati; né il figlio prossimo a morte, che si rivolge a Monaldo dapprima con la dedica: «Signor padre», poi «Carissimo Signor Padre» e poi «Caro Papà», «Mio Carissimo Papà». Citati segue questo «vero e pretto ragazzo» nei suoi malinconici viaggi, nella sua prediletta postura di absent, a Roma a casa di Antici, piena di «squillanti vescovi e cardinali, come, d’estate, la campagna romana di grilli e cicale»; a Bologna; a Pisa, lungo le tiepide rive dell’Arno dove per un istante ritrova e sogna l’Eden. La sua tesi è che l’assoluta estraneità di Leopardi al suo tempo, il suo cervello «fuori moda», gli consentono di essere moderno, come se costantemente «abitasse e guardasse e studiasse cosa avviene oggi». All’orizzonte delle pagine dello Zibaldone, capolavoro filosoficamente bloccato al Settecento, Citati vede i turbini di Nietzsche, Spengler, Adorno. E ancora: «Senza saperlo, Leopardi parla di Flaubert, di Kafka, di Musil, di Gadda e di molti scrittori del ventesimo secolo, divorati dallo spirito di incompiutezza». Ma se la modernità, questa modernità di cui parla Citati, ha a che fare per l’appunto con la «sacrilega presa a rovescio» di Nietzsche, o la via chiusa in cui si dibatte l’arte alle soglie del Novecento, il negativo non ancora realizzato (realizzato poi: da quella «potente capacità demolitrice» che Adorno vedrà in Kafka); se ha a che fare con lo squilibrio di tutti i punti di vista e una «moltitudine di idee» che, secondo Citati stesso, conduce lo scrittore «contemporaneamente da molte parti diverse», allora Leopardi non è affatto «moderno». «Lo Zibaldone era lì, sotto i suoi occhi - scrive Citati-, come un’immensa e mostruosa rovina, a dimostrargli quale forza di dissoluzione lo possedesse». Ma la «modernità» di Leopardi non ha a che fare né con l’incompiutezza, né con la rovina. Lo Zibaldone stesso, libro teratologico e magnifico composto di tanti libri perfettamente compiuti in se stessi, e di progetti e canovacci lavoratissimi, mostra un suo paradossale culto della forma. Idea di forma e idea di natura sono peraltro in Leopardi strettamente connesse: la forma è insieme fondazione e limite, proprio come la natura: al di là della forma non è pensabile alcuna opera umana, come al di là della natura non è pensabile altro che il nulla. Se Leopardi, dunque, è «moderno», lo è in una direzione umanistico-critica, e in qualche momento utopica, non ignota alla modernità storica. I notissimi versi della Ginestra sulla «social catena», che a Citati, in conclusione, sembrano «banali», sono al contrario, quelli sì, del tutto «moderni».