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 2010  ottobre 23 Sabato calendario

“Il petrolio si mangia la foresta” - Mio fratello si chiamava Wilson. Fu assassinato a Shushufindi, il paese dove sono cresciuto

“Il petrolio si mangia la foresta” - Mio fratello si chiamava Wilson. Fu assassinato a Shushufindi, il paese dove sono cresciuto. Quando recuperammo il cadavere, facemmo fatica a riconoscerlo a causa delle sevizie che aveva patito. La pelle del volto gli era stata tolta. Aveva 28 anni e mi somigliava molto: mi dissero che in realtà era me che cercavano». Pablo Fajardo non fa quasi una piega nel raccontare uno dei momenti più dolorosi della sua vita. Ha il piglio e l’autocontrollo di chi è abituato a lottare da sempre. È basso e minuto, ma per la popolazione della regione amazzonica dell’Ecuador è un gigante, capace di sfidare, partendo da zero, una delle più potenti compagnie petrolifere della Terra. «Wilson fu ucciso otto giorni prima che avesse inizio la prima ispezione del caso Texaco», ricorda. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Da giovane fresco di laurea, Fajardo è diventato l’avvocato in prima linea nella causa contro la Chevron, che nel 2001 ha acquisito la Texaco. Quest’ultima fu la prima ad arrivare in Ecuador negli Anni 60 ed è ora accusata di aver scaricato intenzionalmente, su un suolo una volta vergine, 60,6 milioni di litri di greggio e 70,1 miliardi di litri di liquami tossici. Si stima che siano rimasti irrimediabilmente compromessi 2,5 milioni di acri di terreno. Senza contare i danni causati alla popolazione. «L’aspettativa di vita nelle zone di Orellana e Sucumbios, nel Nord-est del Paese, è dieci anni inferiore alla media nazionale. Negli ultimi decenni studi medici indipendenti hanno documentato il significativo aumento di casi di cancro, leucemie, malattie cutanee e aborti spontanei», spiega Benedetta Botta, responsabile in Ecuador di una ong italiana, Coopi, molto attiva in tutta l’America Latina. Da più di quattro anni vive qui e tra i progetti che ha portato avanti in una zona molto problematica c’è anche quello di assicurare acqua potabile agli abitanti dei villaggi che sorgono lungo fiumi come il San Miguel. Gli effetti devastanti dell’estrazione del greggio si traducono in inquinamento non solo del sottosuolo ma anche delle acque. «Questa - spiega Botta - è una regione molto piovosa. Le compagnie come Texaco hanno lasciato per decenni incustodite innumerevoli piscine di petrolio a cielo aperto o malamente coperte. Addirittura, nei primi anni di trivellazioni, per evitare che la polvere si alzasse dalle strade non asfaltate, si versavano gli scarti direttamente sul terreno. Piovendo, tutto questo veleno arrivava fino ai fiumi, che per la popolazione di questi luoghi sono anche fonte di cibo. Nel rio la gente si lava e lava i vestiti. Le persone che abbiamo aiutato mi hanno raccontato tante volte degli effetti della contaminazione, di come specialmente i bambini si siano ammalati di malattie cutanee, accompagnate da vomito e diarrea. I pesci sono stati decimati». «In questi anni abbiamo raccolto un’ampia documentazione che dimostra come due popoli indigeni che vivevano qui sono scomparsi cinque anni dopo l’arrivo delle compagnie petrolifere», ricorda Fajardo. La Texaco ha condizionato a tal punto la vita di questa zona che il principale centro cittadino, sviluppatosi proprio a seguito dei primi ritrovamenti, è stato ribattezzato Lago Agrio: traduzione letterale di Sour Lake, Lago Acido, la città del Texas da dove proveniva la compagnia. La causa giudiziaria è diventata una class action nella quale Fajardo difende, insieme a un gruppo di legali di San Francisco specializzati in diritti umani, gli interessi di 30 mila campesinos. Per la primavera del 2011 è attesa la sentenza di primo grado e a tremare non è solo la Chevron. Qualora la compagnia americana perdesse la causa, molti altri colossi del settore potrebbero trovarsi a dover pagare miliardi di dollari in risarcimenti alle popolazioni. «Il caso della Chevron non è certo l’unico ma è paradigmatico - spiega Luis Saavedra, presidente dell’organizzazione non governativa locale Inredh -. Ciò che hanno fatto in questi anni Repsol o Perenco è molto simile». E se ampie zone dell’Amazzonia ecuadoriana sono già andate perdute, ora ad essere a rischio è quella parte della foresta pluviale che è anche considerata tra le più ricche al mondo per biodiversità: il parco nazionale dello Yasunì. Il suo sottosuolo nasconde 84 milioni di barili di petrolio, circa il 20% della riserva attuale dell’Ecuador. Il presidente Rafael Correa si è impegnato a non trivellare la regione, ma a una condizione: che la comunità internazionale si faccia carico del problema e versi nelle casse dello Stato 3.600 milioni di dollari in tre anni. Si tratta di circa la metà del denaro che si otterrebbe estraendo l’oro nero. Per ora gli unici Paesi ad aver avanzato una proposta concreta di aiuto sono stati il Cile e la Germania. Una delegazione del ministero del Patrimonio visiterà presto anche l’Italia.